categoria: Vicolo corto
Lavorare stanca (se prevale la distanza)
Post di Eduardo Camerlengo, HR Director Protiviti Italia –
Siamo circondati. Statistiche e indagini ovunque a raccontarci quante persone hanno cambiato lavoro negli ultimi mesi e quante stanno per farlo: tantissime, come mai prima.
Altrettanto noto e vasto il catalogo di che cosa cerca chi cambia lavoro o inizia a lavorare: senso di scopo; flessibilità sul luogo in cui lavorare (meglio se con prevalenza del “remoto”); tutela del tempo libero; una cultura aziendale equa, aperta alle diversità e inclusiva; politiche aderenti ai princìpi della sostenibilità sociale, ambientale e di governo. Le richieste di chi oggi cerca un’occupazione, i più giovani in particolare, sono chiare, non negoziabili e precedono addirittura le attese sull’entità del compenso (a condizione, però, che l’inflazione non veleggi al 10% come ora).
Aspettative comprensibili, molte urgenti, quasi tutte condivisibili. Le imprese vi prestano sempre più attenzione, anche perché le fronteggiano in un contesto di scarsità dell’offerta dei profili professionali funzionali alle trasformazioni dell’economia e del contesto competitivo.
Impatto di breve periodo
Sono altrettanto chiari i termini dell’equazione da risolvere per salvaguardare gli equilibri di bilancio, perché il sottodimensionamento dell’offerta qualificata di personale accende la competizione tra le imprese spingendo verso l’alto il costo del lavoro. Ne consegue l’erosione dei profitti nei casi (frequenti), in cui l’impresa non ribalti integralmente questi aumenti sul mercato, innalzando prezzi e tariffe.
Se privilegiamo l’impatto di breve periodo sul conto economico, alcune richieste possono essere opportunisticamente accolte: il lavoro da remoto libera spazi, fa risparmiare energia e allarga l’orizzonte geografico della ricerca per orientarsi dove il lavoro costa meno. Sono noti i benefici in termini di conciliabilità lavoro/vita privata e riduzione degli spostamenti casa-lavoro.
Qui, però, si fermano convenienze e certezze e si aprono domande su questioni meno contingenti e interconnesse. Il pensiero va soprattutto a chi è entrato nel mondo del lavoro negli ultimi tre anni, al significato di fare impresa e alla qualità delle professionalità in ottica più ampia e duratura.
I costi impliciti del lavoro a distanza
Allentare il contatto diretto con l’organizzazione comporta, infatti, importanti costi impliciti, tanto per l’impresa come sistema, quanto per le singole persone che vi lavorano, soprattutto se all’inizio di un percorso.
Il primo di questi costi si manifesta in termini di sostegno alla crescita, diffusione delle competenze e capacità di generare innovazione. Dove e con chi si lavora fa la differenza: già dieci anni fa Enrico Moretti[1] smontava il falso mito della morte della geografia lavorativa a fronte di un mondo del lavoro sempre più liquido e delocalizzato. Conta certamente la qualità e la specializzazione del lavoro e di chi lavora, ma conta moltissimo anche l’ecosistema in cui si lavora, perché la concentrazione fisica di professionalità qualificate facilita il trasferimento della conoscenza, anche nelle occasioni informali (pausa pranzo, aperitivo…).
La seconda dimensione da considerare è in termini di comprensione, condivisione ed evoluzione della cultura organizzativa dell’impresa. Anche nell’epoca della digital transformation, un’organizzazione trova il suo senso esistenziale in un sistema di valori, visione e modi di adempiere la propria missione. È quel che costituisce l’identità dell’impresa e la sua costruzione implica investire sull’interazione e sul confronto superando i pregiudizi e le barriere, fisiche e tecnologiche.
L’investimento sulla crescita professionale
Quando chi aspira al tirocinio o al contratto di apprendistato pone la condizione del lavoro a distanza, di fatto chiede inconsapevolmente all’azienda di mettere in secondo piano l’investimento sulla propria crescita professionale e sulla creazione di una rete di relazioni. Si dispone, inoltre, a rinunciare a una più rapida e più completa comprensione del “come ci comportiamo da queste parti” (memorabile definizione del concetto di cultura organizzativa)[2].
Una relazione puramente opportunistica?
Spesso le imprese assecondano le nuove richieste di chi cerca lavoro pur di assicurarsene le competenze necessarie, ma ancora più complesso e importante è creare (su due fronti) le condizioni per trattenerle. Se l’investimento nella creazione di un legame e di un coinvolgimento basato su reciproca fiducia non è condiviso tra chi guida l’azienda e chi ci lavora, allora il rapporto si riduce a una relazione puramente transazionale e opportunistica, destinata a non crescere o durare. Come può una persona che abbia iniziato a lavorare da remoto, davanti a un computer, magari a videocamera spenta, maturare un significativo attaccamento all’azienda? Perché non dovrebbe cambiare lavoro (o schermo) per uno stipendio anche di poco più alto?
La vita comincia dopo il lavoro?
La ricerca si complica non solo per la competizione sulle competenze, ma anche per i pregiudizi sulle attitudini. Il dibattito sul c.d. bilanciamento vita-lavoro è costruito sul triste presupposto che la vita cominci solo dopo aver terminato l’attività lavorativa, che deve essere conseguentemente minimizzata, con buona pace del concetto di etica del lavoro.
A chi rappresenta l’impresa spetta il compito di chiarire, soprattutto ai giovani (che non hanno sempre visibilità sui costi impliciti citati), gli elementi fondanti del patto per una collaborazione reciprocamente proficua. Gli incontri che organizziamo nelle università per trasferire agli studenti la nostra esperienza dimostrano che queste argomentazioni trovano accoglienza favorevole.
Cosa possono fare le imprese
Tocca alle imprese, insomma, il compito di restituire al lavoro la funzione di arricchimento della persona scongiurando gli effetti (inevitabili) di un lavoro vissuto come mero atto produttivo (al quale allude la citazione di Cesare Pavese).
Note
[1] Enrico Moretti – “La nuova geografia del lavoro”
[2] Charles Handy