categoria: Vicolo corto
Chi rischia di più la disoccupazione
Post di Cristiano Pechy, presidente di AISO, Associazione Italiana Società di Outplacement –
Il principale problema dell’occupazione è dato non dall’assenza di offerta di lavoro, quanto piuttosto dalla carenza di personale qualificato.
I migliori talenti hanno approfittato del cambiamento in atto e delle opportunità che ne sono derivate, migliorando il proprio status sia come posizione sia nella retribuzione. Chi non beneficia delle opportunità di questo cambiamento rischia di diminuire la propria spendibilità sul mercato, la propria attrattività, che nel settore chiamiamo “employability”.
Ciò accade principalmente a coloro che non hanno una specializzazione professionale aggiornata alle richieste del mercato e che quindi non si sono adattati al cambiamento. Dopo una battuta d’arresto, come quella della pandemia o la perdita del lavoro, le occasioni per trovare un nuovo equilibrio personale e lavorativo sono molte più di quante si pensi. Il punto sta nell’affrontare la ripartenza con ritrovata consapevolezza, entusiasmo, fiducia in sé stessi e un mindset aperto al cambiamento e all’esplorazione anche di strade nuove.
Disoccupazione, rischiano soprattutto i giovani
A rischiare una bassa employability e quindi un forte rischio di disoccupazione sono soprattutto i giovani, soprattutto se impiegati in attività con competenze obsolete. Alcuni fattori di rischio sono per esempio l’occupazione in settori colpiti dalla crisi economica.
I nostri giovani si trovano in grossa difficoltà, in maniera paradossale, in quei settori in cui la domanda di lavoro è alta. La maggiore carenza di talenti si riscontra in tutto il mondo dell’Information Technology, in diversi ambiti dell’Industria 4.0, il cosiddetto Smart Manufacturing o Engineering, un trend accelerato dai progetti energetici e infrastrutturali del PNRR che stanno spingendo la domanda di profili tecnici specializzati anche in questi ambiti così come in molte funzioni. Si tratta di uno skills shortage che non riguarda settori industriali e di servizi specifici, ma spesso aree professionali trasversali a tutti i settori.
L’upskilling e il reskilling sono la diretta conseguenza dei cambiamenti organizzativi e della flessibilità richiesta alle persone. Le competenze invecchiano e il cambiamento tecnologico costringe chiunque a utilizzare strumenti e metodi sempre diversi e quindi ad accrescere le competenze già in possesso e ad acquisirne di nuove.
Cosa devono fare le aziende
Le aziende a loro volta hanno l’impegno di garantire l’employability, riposizionando le risorse all’interno dell’organizzazione. Chi è carente a livello professionale è destinato ad avere poche prospettive di crescita. Un’azienda che voglia essere agile, reattiva al cambiamento e quindi competitiva avrà sempre più bisogno di competenze che non possono essere replicate dalle macchine e dal digitale.
Sarà quindi sempre più importante valorizzare a tutti i livelli dell’organizzazione il potenziale umano, la componente soft, per esempio il problem solving creativo, la capacità di comunicazione, la capacità di muoversi in ambienti che diventano più complessi e ibridi.
Le soft skill richiedono al lavoratore un certo livello di autonomia, accountability, auto-responsabilizzazione sul risultato finale. La digital transformation è ciò che più ha impattato sul mondo del lavoro e da cui originano buona parte delle sfide che il mercato del lavoro si trova oggi a dover fronteggiare. Questo processo tocca trasversalmente più tipologie di aziende, più aree di business, più ruoli/livelli aziendali.
Oggi possiamo evidenziare due tipologie di realtà. Da una parte ci sono le aziende che sono state impattate dal Covid, e dall’altra quelle che non sono state impattate o che addirittura hanno continuato a crescere. Tuttavia, sulle prime bisogna fare un’ulteriore distinzione: quelle per le quali la pandemia ha incrementato criticità che c’erano già prima e quelle colpite in maniera temporanea e che quindi si sono riprese o si riprenderanno con la ripartenza.
La disoccupazione in un Paese che non protegge il lavoro che va creato
Il nostro è un Paese che protegge il posto di lavoro esistente e non quello da creare. Certo, questo ha salvato tante situazioni, ma nel momento in cui viene imposto il mantenimento del lavoro in un business decrescente non viene favorita la competitività italiana nei confronti dei business crescenti.
Non esiste una flessibilità strutturata, armonica, rapida, tra competenze obsolete e quelle che il mercato richiede maggiormente. Questo è un problema. E lo è soprattutto oggi, quando ci sono settori in rapida crescita con una forte domanda di lavoro e altri in profonda crisi. Anche solo dando uno sguardo online, possiamo renderci conto che ci sono centinaia di migliaia di richieste di lavoro, e le previsioni del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere per il trimestre novembre-gennaio sono di 1,2milioni di entrate.
Fare formazione con velocità e ritmo elevati
Per uscire da questo paradosso, è fondamentale incentivare la formazione e la riqualificazione. In questa direzione vanno gli investimenti per le politiche attive del Pnrr, come il programma Gol – Garanzia occupabilità lavoratori – che può davvero essere un’occasione di rilancio delle prospettive lavorative di centinaia di migliaia di persone.
In una realtà in continua trasformazione, con un ciclo di competenze sempre più breve, sono e saranno necessari continui cambiamenti e aggiornamenti, un modo di fare formazione, reskilling e upskilling, con velocità e ritmo elevati. Ecco perché auspichiamo anche una gestione delle transizioni di carriera che faccia leva sulle opportunità di formazione, per un ricollocamento il più possibile rapido di chi si trova in questa fase della propria vita professionale.