Scuola, lavoro e futuro sostenibile. Che cosa divide Italia e Germania

scritto da il 03 Agosto 2022

Post di Cecilia Ivardi Ganapini, dottoranda in politica economica e assistente di ricerca all’Università di San Gallo –

Secondo la narrativa più comune, bisogna trovare un modo per far crescere le nostre economie per non incorrere in problemi sia per l’efficienza economica che per la giustizia sociale. Fin dalla rivoluzione industriale, economisti e politici hanno pensato il mondo naturale come un deposito di risorse a cui attingere. Se una fonte di materie prime veniva esaurita, se ne poteva trovare un’altra. Se non se ne trova un’altra, la tecnologia è in grado di far apparire risorse (quasi) dal nulla. Questo tipo di ragionamenti ha motivato una serie di politiche economiche volte ad incrementare i nostri PIL, considerati indici della crescita (e del benessere) economici. Il risvolto sociale di questi ragionamenti risiede nella diminuzione della disoccupazione. Siccome il progresso tecnologico è programmato per rendere i processi produttivi più efficienti, se la forza lavoro non aumenta, si potrebbe assistere alla scomparsa di posti di lavoro esistenti e alla mancata creazione di nuovi per i giovani. Per contrastare la disoccupazione, quindi, bisogna assicurarsi che l’economia continui a crescere e a creare posti di lavoro.

Questa narrativa comporta alcuni problemi. Prima di tutto, si discute da tempo di come il PIL non riesca veramente a indicare il “benessere” di una popolazione, proponendo indicatori alternativi che possano esprimere aspetti non materiali del benessere che non abbiano a che fare con la materialità (per esempio, l’Indice dello Sviluppo Umano delle Nazioni Unite). In secondo luogo, anche gli economisti rimettono sempre più in questione l’ortodossia della crescita economica. I vincitori del premio Nobel per l’economia nel 2019 Abhijit Banerjee ed Esther Duflo nel libro “Una buona economia per tempi difficili” mostrano attraverso rigorosi metodi sperimentali che la crescita del PIL non è di per sé desiderabile, in particolare se non redistribuita in modo equo. Gli studiosi non sono contrari di per sé alla crescita economica, ma invitano ad essere cauti quando se ne analizzano gli effetti. Sull’onda di queste riflessioni, sta sorgendo un movimento che spinge queste riflessioni al punto da questionare la fattibilità (e/o la saggezza) di creare nuovi prodotti e servizi per consumarli, specialmente alla luce della catastrofe climatica che viene solo accelerata dalla maggior parte dei processi produttivi. Alcuni tendono quindi a invocare un rallentamento o persino una sosta della crescita economica (decrescita).

Siamo all’inizio di un’estinzione di massa e voi non fate altro che parlare di soldi e di favole sulla crescita economica eterna. Come vi permettete!”

(Accusa di Greta Thunberg al vertice delle Nazioni Unite sull’azione per il clima, 23 settembre 2019, TdA)

L’importanza dell’educazione

Sia che si ritenga che l’economia debba continuare a crescere sia che ci si auspichi un rallentamento, uno dei temi che mettono d’accordo entrambe le parti è il bisogno di educare le generazioni future in modo da prepararle a condizioni di vita e lavoro nuove. I sostenitori dell’ortodossia della crescita economica vedono l’educazione come un modo di accumulare “capitale umano”. Il termine indica l’insieme di quelle capacità, competenze, conoscenze, abilita professionali e relazionali che determinano la qualità della prestazione erogata dal lavoratore, contribuendo ad aumentare la produttività di un’impresa. Gli economisti più scettici riguardo al “miraggio della crescita economica”, invece, preferiscono concentrare lo sforzo politico in interventi mirati che possano educare le nuove generazioni alla sostenibilità, invocando, per esempio, l’apprendimento e sviluppo di alternative ai carburanti fossili. Le politiche educative divengono pertanto un tema centrale dei dibattiti politici. Come riformare i nostri sistemi educativi affinché le generazioni future possano avere lavori dignitosi e il futuro sia sostenibile (sia che questo implichi crescita economica, rallentamento della stessa, o decrescita)?

Come capita spesso, questo tipo di tematiche tende a creare un esempio virtuoso verso cui tendere. In Europa, a partire dalla crisi economica del 2008, l’esempio virtuoso è stato quello della Germania. Il motivo principale per cui il sistema tedesco è visto come esemplare risiede essenzialmente nei bassi tassi di disoccupazione a cui è associato.

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Figura 1: Disoccupazione come % della forza lavoro, fonte World Bank, elaborazione dell’autrice.

Anche se la scuola è una competenza regionale, in tutto il paese le scuole secondarie di primo grado sono divise in tre livelli, cioè Hauptschule, Realschule e Gymnasium. Nel primo biennio, le differenze tra i tre tipi di scuole sono ridotte, ma successivamente si specializzano. La Hauptschule ricorda gli indirizzi professionali italiani e fornisce un’istruzione di base negli ambiti generali e poi specializzata negli ambiti professionali. La Realschule, invece, è più simile agli istituti tecnici ed ha un’offerta più ampia rispetto a quella della Hauptschule. Il Gymnasium, infine, rappresenta la forma di istruzione più elevata ed è volto a dare competenze generali che permettano di intraprendere un percorso universitario.

La peculiarità del sistema tedesco rispetto al sistema italiano risiede nel modo in cui si concepisce lo studio: in Germania, non esiste l’idea dello studio fine a se stesso, ed è impossibile disgiungerlo dalla pratica professionale. Al di là dell’elemento culturale insito nel pensare allo studio sempre in congiunzione a una professione, questo implica l’esistenza di percorsi predefiniti che guidano gli studenti dalla scuola al lavoro. Nello specifico, per quanto riguarda il Gymnasium, gli studenti si aspettano di accedere al mondo del lavoro attraverso tirocini, mentre nel caso della Hauptschule e della Realschule, attraverso il sistema duale. Quest’ultimo permette di conseguire diversi titoli di studio post-secondario attraverso cooperazioni tra le scuole e le imprese. Questi percorsi formativi implicano apprendistati dove i ragazzi lavorano due o tre anni come apprendisti, integrando l’esperienza pratica con lezioni in classe uno o due giorni a settimana.

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Figura 2: Sistema scolastico tedesco, fonte Adiscuola.it

Il sistema duale, di conseguenza, è lodato da organizzazioni internazionali e promosso come soluzione per indirizzare i giovani che non vogliono intraprendere carriere universitarie ed, in questo modo, prevenire la disoccupazione giovanile. Questo non solo permette (teoricamente) di allineare i bisogni delle imprese con la formazione, in modo da prevenire mismatch di competenze, ma permette anche a giovani provenienti da contesti socioculturali svantaggiati di guadagnare uno stipendio durante gli studi. Di conseguenza, il sistema duale è considerato responsabile di alti livelli di inclusione sociale.

Anche se il sistema duale potrebbe ricordare sistemi di alternanza scuola/lavoro che si cerca di implementare da anni anche in Italia (per esempio con la legge La Buona Scuola del 2015), è sostanzialmente diverso. In Germania (così come in Austria, in Svizzera e in altre economie di mercato coordinate), le imprese sono abituate a partecipare al sistema duale e a firmare contratti di apprendistato con l’idea poi di assumere gli stessi apprendisti. Questo tipo di organizzazione è estremamente affascinante perché da un punto di vista prettamente economico, è inaspettato. Dal punto di vista di un’analisi cost-benefit, impegnarsi negli apprendistati spesso porta svantaggi alle imprese. Infatti, molte volte, se un’impresa investe nella formazione di un apprendista, è semplice per un concorrente offrire all’apprendista condizioni di lavoro competitive una volta terminata la formazione, e così facendo “rubarne” le competenze e assumerlo/la senza avere più bisogno di formarlo/la, risparmiando sull’investimento.

Di conseguenza, un sistema duale in cui le imprese si mettono d’accordo sulla formazione va oltre le analisi di costi-benefici immediate. Nello specifico, un sistema duale può funzionare solo in presenza di vincoli istituzionali che impediscano questo comportamento che in inglese si chiama “bracconaggio”. A tale scopo, la Germania ha leggi che regolano i salari degli apprendisti all’interno di diversi settori (per impedire a un’azienda di offrire salari più competitivi) e anche alti livelli di sindacalizzazione, che dovrebbero assicurare la rappresentanza dei lavoratori all’interno di questi processi. In mancanza di tali vincoli istituzionali, le imprese non riusciranno mai a partecipare nella formazione in modi equivalenti a quelli che assicurano il successo del sistema duale in Germania. Tuttavia, tali vincoli non possono essere creati dal nulla ma richiedono molto tempo per sedimentarsi nella cultura di un paese ed essere interiorizzati dalle imprese, che possono lentamente sviluppare fiducia l’una nell’altra e nel sistema. Questo è il motivo per cui gli studiosi concordano nel ritenere il sistema duale completamente impossibile da esportare all’estero.

Un’ultima nota sul sistema duale è d’obbligo in tempi di globalizzazione e deindustrializzazione. La ricerca degli ultimi anni ha messo in luce che il modello duale sta facendo molta fatica ad innovarsi e a rimanere al passo con i tempi. Questo è perché, in primo luogo, il sistema duale era stato progettato per professioni legate all’industria manifatturiera, le quali in generale sono in diminuzione a causa della deindustrializzazione. In secondo luogo, l’”economia della conoscenza” al cui sviluppo assistiamo oggi richiede competenze di livello sempre più alto per operare tecnologie sempre più complesse e, stando alla ricerca, sembra non necessitare più molto di competenze di livello medio (per esempio le competenze applicate ai settori industriali e manifatturieri). Anche se settori come l’automotive o la sanità attingono in maniera importante dalla forza lavoro formata nel sistema duale, si fa fatica a adeguare la maggior parte delle formazioni duali alle crescenti professioni del terzo settore. Queste ultime sono in crescita e non necessitano più così tanto di competenze tecniche ma, invece, delle cosiddette soft skills (per esempio le lingue e le competenze interpersonali).

Questo motiva una discussione politica in Germania che da anni cerca faticosamente di innovare i curricula e i contenuti delle formazioni duali. Siccome il modello corporatista impone tempi di negoziazione molto lunghi, le grandi imprese tedesche, non più così soddisfatte con i risultati delle formazioni duali si stanno muovendo parallelamente e creando, senza cooperazione dello stato, sistemi di formazione alternativi, tra cui per esempio, i cosiddetti dual study programs. Questi ultimi sono formazioni di livello para-universitario che si ottengono grazie ad apprendistati in grandi imprese. Insomma, le aziende stanno cercando di crearsi da sole le competenze che il sistema duale non sembra più riuscire a creare.

In conclusione, sia se pensiamo che l’economia debba continuare a crescere sia se pensiamo che sia opportuno crescere in modo diverso (o non crescere più), c’è un generale consenso sul bisogno di riformare l’offerta formativa alla luce dei cambiamenti tecnologici e sociali a cui stiamo andando incontro. Questo articolo ha parlato di un modello che, in Europa, gode di ampia popolarità, e cioè del sistema duale tedesco, che è visto come un modo per incanalare i giovani che non frequenteranno l’università direttamente nel mercato del lavoro grazie alla cooperazione delle imprese. Anche se questo modello è visto come una soluzione per problemi come la disoccupazione giovanile, ho voluto mostrare sia che pensare di trasportarlo in un differente contesto culturale è impossibile sia che il modello è in crisi. Per questo motivo, sistemi che cercano di riformarsi e innovarsi dovrebbero evitare di pensare che ci sia un modello che possa essere semplicemente copia-incollato ma iniziare a pensare a soluzioni mirate e adeguate al contesto in cui debbano attuarsi.