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Referendum sulla giustizia, un fallimento annunciato. Ecco perché
L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –
Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla Giustizia. Ma, come già annunciato in tempi non sospetti, si sente già la puzza di cadavere.
Non è solo un problema di boicottaggio e di inerzia dell’istituto referendario, praticamente ignorato dalla televisione nazionale. Il referendum avrebbe meritato quantomeno una giornata a sé, una ribalta personale con pubblico da protagonista. E non una poltrona da comparsa, come si è verificato, abbinandolo alle elezioni amministrative, sulle quali i partiti si giocano una vita politica, senza indugio a sacrificare per questo il referendum, mal digerito perché poco controllabile.
Ma il nocciolo della questione, è che il referendum vien purtroppo usato per porre rimedio all’incapacità del Parlamento di legiferare.
Appare doverosa, poi, una considerazione politica e morale sul referendum, in quanto, almeno in Italia, per la sua stessa conformazione, rappresenta un mero specchietto per le allodole, rivelandosi una misura dispendiosa e purtroppo inutile.
Lo strumento del referendum è attualmente vigente in maniera del tutto depotenziata nel nostro paese, dove ne esistono 3 tipologie: abrogativo, costituzionale e territoriale.
Manca, in sostanza, la possibilità di “decidere qualcosa” in concreto, cosa che si potrebbe realizzare introducendo il cosiddetto “referendum propositivo”.
Emblematica risulta in tal senso la vicenda occorsa alla fine degli anni 80, con il referendum che si tenne l’8.11.87, circa la responsabilità civile dei magistrati: in quel caso, con un plebiscito pari all’80%, l’elettorato si pronunciò in favore dell’abrogazione del d.p.r. n. 497/1987, limitativo della responsabilità civile dei magistrati.
A breve distanza dalla consultazione, tuttavia, venne approvata la legge 13.4.1988, n. 117 (responsabilità civile dei magistrati), che tuttora disciplina la materia. Normativa che ha di fatto ignorato l’intento dei promotori del referendum abrogativo, prevedendo una responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del magistrato, previa rivalsa dello Stato stesso. Non sfugge ai numeri il fallimento completo del sistema che ne è derivato: su 544 cause depositate contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati dal 2010 al 2021, sono state depositate 129 sentenze emesse finora, di cui solo otto condanne.
Tant’è che oggi si torna a votare. Ma con quale speranza?
Il referendum, per avere un minimo di senso, dovrebbe essere propositivo.
Il referendum propositivo è uno strumento di democrazia diretta con cui gli elettori possono letteralmente sostituirsi al legislatore, sostenendo e promuovendo iniziative concrete.
Il problema è che gran parte degli aventi diritto al voto, secondo chi critica, non ha le competenze per esprimersi a ragione su determinati temi e potrebbe decidere semplicemente in base all’istinto o alle indicazioni del suo partito, prestandosi così a iniziative sconsiderate frutto di campagne demagogiche.
Ma, è qui il paradosso, non sembra, almeno a parere di chi scrive, che la gran parte dei rappresentanti chiamati a svolgere le funzioni istituzionali abbiano essi stessi grosse competenze in materia. Non è più il tempo in cui la politica era fatta da statisti veri, profili di alto livello e dal bagaglio di competenze importante.
Il tema delle non competenze in capo al popolo non regge più, perché le competenze mancano anche ai piani alti.
Semmai, sono le attuali regole che disciplinano il referendum ad essere discutibili, c’è uno squilibrio numerico: da un lato, per proporlo basta raccogliere 500 mila firme, dall’altro, però, lo stesso non passa se non affluisce alle urne il 50% + 1 dei votanti, che è un quorum ormai anacronistico rispetto ai numeri attuali e, per di più, offre uno strumento determinante al partito detrattore del referendum, che invece di incitare il proprio elettorato a votare “no”, lo invita semplicemente a restare a casa (scelta comoda per l’elettore e quindi ancor più appetibile), boicottando di fatto l’intera iniziativa.
C’è da chiedersi dunque se non sia il caso di introdurre un referendum propositivo, opportunamente calibrato in maniera da evitarne usi distorti e troppo frequenti (ma allo stesso tempo eliminando il quorum minimo di votanti), per rafforzare la voce del popolo e dare allo stesso uno strumento più incisivo rispetto alla mera possibilità di abrogare norme o eleggere i propri rappresentanti. Ovviamente, limitando le questioni da trattare con tale strumento, che rappresenta comunque un extra, a tematiche di primo impatto, basti citare a tal proposito argomenti come l’aborto o il divorzio, per comprendere.