categoria: Draghi e gnomi
La leadership del dollaro ha poche alternative: ecco le conseguenze
Post di Michele Sansone, Country Manager di iBanFirst in Italia –
Il Dollar Index – indice che misura il valore del dollaro americano in relazione a un paniere di sei differenti divise, tra cui euro e sterlina – è aumentato del 6,8% dall’inizio dell’anno. Nello specifico, da gennaio si sono riscontrati i seguenti valori: 8,2% contro l’euro e il franco svizzero, 9,7% contro la sterlina e 13,1% contro euro e yen giapponese.
Gli investitori istituzionali continuano a essere fiduciosi sulla stabilità del dollaro nel lungo periodo, come sottolineato da un recente report della Commodity Futures Trading Commission (CFTC). Sin dagli anni ‘80 il dollaro ha attraversato tre fasi con alti e bassi: dagli anni ‘80 ai primi anni ‘90 (l’inizio di un ciclo di aumento dei tassi per mano di Alan Greenspan), dal 1995 al 2011 (fine della crisi finanziaria americana) e dal 2015 (aumento dei tassi per mano di Janet Yellen). Il picco dell’ultimo ciclo non è ancora stato raggiunto, ma gli investitori si aspettano per il futuro un aumento pronunciato dell’indice. Nel giro di poche settimane sono aumentati i fattori di rischio che dovrebbero a lungo termine andare a beneficio del dollaro: il conflitto in Ucraina, anche se l’impatto risulta al momento minore, il superciclo delle materie prime, le perturbazioni in corso nel commercio internazionale, il rischio di recessione tecnica in diverse economie sviluppate e di stagflazione in altre, Germania su tutte. In questo scenario la domanda del dollaro continua a crescere proprio quando la Federal Reserve americana ha annunciato la riduzione del bilancio, ritirando liquidità.
Ci troviamo in uno scenario in cui il dollaro americano rimane leader del mercato con poche alternative: il franco svizzero non è l’opzione migliore a causa degli interventi regolari della Banca Nazionale Svizzera (quasi 4,2 miliardi di franchi sono stati impegnati nelle ultime settimane per sostenere il tasso di cambio della valuta). Lo Yen giapponese non risulta invece un problema dal momento che la Banca del Giappone ha mantenuto una politica monetaria ultra-accomodante.
Un nuovo ciclo di apprezzamento del dollaro
L’aumento del dollaro americano porterebbe a due conseguenze importanti: un rallentamento dell’attività economica degli USA e l’esportazione dell’inflazione attraverso il loro commercio. In realtà i macro impatti sul mercato sono ben quattro: diminuzione del commercio internazionale, calo dei prestiti bancari transfrontalieri, calo del capex (spese di capitale da parte delle imprese), e un deterioramento delle catene di valore internazionali altamente dipendenti dal tasso di cambio del dollaro dagli anni ‘90.
Uno studio di Emine Boz (2017) ha mostrato come un apprezzamento dell’1% del dollaro USA riduca i volumi del commercio internazionale di una media dello 0,6-0,8% in un anno. Considerando che l’aumento del dollaro sarà probabilmente vicino ad almeno il 4% quest’anno, questo porta ad un calo dei volumi commerciali e a un calo dei volumi di scambio di almeno il 2,4% in un anno. Un dato da non sottovalutare che può voler dire meno crescita globale e una distribuzione della ricchezza ancor meno omogenea. In questo contesto, dunque, i Paesi emergenti rimangono i più vulnerabili.
Secondo uno studio della Banca d’Inghilterra, invece, un aumento del 10% del dollaro americano si traduce in media in un calo di 1,5 punti percentuali del valore del dollaro. Finora nessuna indagine di questo tipo è stata condotta sui Paesi sviluppati e si può soltanto presumere che l’impatto possa essere minore a causa di una lieve dipendenza dal finanziamento in dollari.
Soluzioni alternative con poca credibilità
Una diversificazione del sistema monetario internazionale, attualmente dominato dal dollaro, non è ancora una soluzione ottimale. Esistono però diverse iniziative come quella dell’India che sta studiando un meccanismo di scambio rupia-petrolio per importare il petrolio russo e bypassare le sanzioni USA e UE. Con ogni nuova crisi abbondano le richieste di un’alternativa al dollaro americano, ma né l’euro né il renminbi né il Bitcoin sono in grado di sostituirlo.
Le debolezze nell’architettura istituzionale dell’euro impediscono un’adozione più massiccia della valuta (scenario che porta a rischi di frammentazione monetaria tra i Paesi membri, come avvenuto nel 2012), il renminbi non è sufficientemente internazionalizzato, e i recenti eventi legati al Covid in Cina rendono gli analisti piuttosto cauti sulla politica di apertura di Pechino. Il Bitcoin, infine, possiede tutte le caratteristiche di un asset di rischio che si muove in tandem con l’indice Nasdaq, non esattamente una riserva di valore credibile in tempi di avversione al rischio. Rimaniamo dunque in un mondo dollaro-centrico in cui la valuta costituisce il 70% delle riserve estere.
Spetta alle banche centrali degli altri paesi difendere le loro valute. Alcune di loro lo stanno facendo, come la Banca centrale del Brasile, ad esempio, aiutata dall’aumento dei prezzi delle materie prime. Altri ci stanno riuscendo con performance altalenanti, come accade con la Banca Centrale Europea. Il rischio a lungo termine è che questa difesa delle valute possa portare a una guerra valutaria, scenario già sperimentato nel 2011.