categoria: Distruzione creativa
Robot e intelligenza artificiale, i piani del PNRR arrivano troppo tardi?
L’autore di questo post è Guglielmo Gallone, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza – Università di Roma –
L’Italia ha adottato lo «Strategic Program on Artificial Intelligence 2022-2024». Il documento è frutto di una collaborazione tra Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ministero dello Sviluppo Economico e Ministero dell’Innovazione Tecnologica e della Transizione Digitale. Per quanto riguarda l’intelligenza artificiale, dal testo emerge che «l’industria italiana è in rapida crescita, ma il suo contributo economico rimane ancora al di sotto del suo potenziale, soprattutto rispetto ai Paesi di pari livello in Europa».
La strategia adottata dal governo italiano prevede, dunque, tre aree di intervento: ricerca, competenza, economia. Se si finanzia la ricerca avanzata, si rafforzano le competenze e si attirano talenti. Così, l’Intelligenza artificiale potrà essere applicata direttamente ai settori che maggiormente la richiedono: fra questi, infrastrutture, banche, pubblica amministrazione e sicurezza nazionale. Il progetto verrà finanziato in gran parte attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
L’iniziativa italiana, però, è tutt’altro che isolata. Anzi, come spesso accade, arriviamo tardi. Soprattutto rispetto ai Paesi orientali che, è vero, sono lontani geograficamente e culturalmente, ma dai quali si può sempre imparare qualcosa. Ad esempio, il podio della concessione di brevetti in campo robotico è tutto asiatico. È quanto emerge dal nuovo studio del Center for Security and Emerging Technology.
La Cina è al primo posto con il 34,6% del totale dei brevetti concessi tra il 2005 e il 2019. Seguono Giappone (20,8%) e Corea del Sud (15,4%). Gi Stati Uniti vengono subito dopo, con un 13,2% che evidenzia un netto distacco rispetto ai primi classificati. Ci sono poi tre Paesi europei (Germania con 4,7%, Francia con 1,6% e Italia con 0,5%). Secondo l’International Federation of Robotics, gli asiatici primeggiano anche nell’installazione dei robot. Il 71% di tutti gli automi viene usato in Oriente.
Dati e confronti possono innescare considerazioni utili per un Paese che, come l’Italia, cerca un ruolo nell’Ia. La prima. La potenza del Dragone rosso ha alla base l’idea del nazionalismo tecnologico e del robot inteso come «perla della corona per l’industria manifatturiera». Politica, scienza e società lavorano collettivamente per permettere al piano «Made in China 2025» di realizzarsi. Nel 2016, ad esempio, il governo centrale ha sviluppato il Robotics Industry Development Program, in cui viene indicato l’obiettivo di triplicare la produzione annuale di robot industriali. Nel 2018 è nato il National Robot Innovation Center: un centro nazionale di ricerca che integra imprese, università e istituti per «aggiornare la tecnologia robotica cinese e favorire la trasformazione industriale». Anche il sindaco di Pechino ha dichiarato che «l’industria dei robot è una delle priorità nel processo di accelerazione per diventare un centro internazionale di innovazione».
Così, lo scorso settembre, nella capitale cinese si è tenuta la World Robot Conference. La mostra ha permesso di far capire al pubblico perché i robot sono così importanti e quali usi se ne possono fare. Ad esempio, l’azienda cinese Yushanfang produce robot in grado di cucinare autonomamente fino a 700 piatti in due minuti. CloudMinds realizza automi che disinfettano gli ospedali, consegnano medicinali ai pazienti e controllano parametri vitali come la temperatura. Questa tecnologia è stata usata nell’ospedale improvvisato di Wuhan durante l’apice della pandemia: i robot, attraverso braccialetti collegati a un programma di gestione delle informazioni basato sul cloud, inviavano informazioni sui pazienti a medici e infermieri. Durante la Conferenza di Pechino è stata fatta anche una dimostrazione dal vivo di chirurgia ortopedica assistita da un automa.
Insomma, i robot stanno acquisendo sempre più centralità. Secondo l’Ufficio Nazionale di Statistica cinese, la produzione interna di automi industriali è passata da 72 mila unità nel 2016 a 212 mila nel 2020. Nello stesso anno, i produttori di robot che svolgono funzioni speciali in Cina hanno ottenuto entrate pari a 52,9 miliardi di yuan (8,21 miliardi di dollari), con un aumento del 41% rispetto al 2019. Nelle fabbriche di tutto il mondo, oggi, vengono usati più di 3 milioni di robot industriali: le installazioni sono cresciute del 10% rispetto all’anno precedente. Le previsioni per il 2021 sono altrettanto positive: l’International Federation of Robotics prevede una crescita del 13%, con un totale di 435.000 unità prodotte.
Certo, di fronte al primato asiatico, ci si potrebbe domandare perché investire nell’Intelligenza artificiale. Ci sono ancora validi motivi. Se da un lato la Cina emerge come leader globale della robotica, non lo è in modo indistinto in tutti i settori. Il rapporto del CSET svela che gli Stati Uniti, seppur quarti nella classifica per brevetti concessi, sono leader nei settori più importanti sul piano economico e strategico: aerospaziale, medico e militare. In quest’ultimo caso un ruolo fondamentale è svolto dalla Russia, responsabile del 17% dei brevetti globali sulla robotica bellica. Un altro fattore da tenere in considerazione è che l’industria robotica cinese è relativamente giovane. Nel 2000 vendeva solo 380 unità a livello mondiale (0,4% della produzione). Due decenni dopo è arrivata al 35%. Se è chiaro che, per raggiungere certi risultati, l’Italia da sola può poco e che serve una strategia europea comune, l’Unione Europea ha pubblicato il «Piano coordinato del 2021 sull’intelligenza artificiale». Il piano italiano parla di «Ia italiana come Ia europea».
Ben vengano le strategie e le intenzioni. Ma bisogna anche domandarsi come mai, nel Vecchio Continente, per il terzo anno consecutivo le installazioni di robot industriali siano calate (di 75 mila unità nel 2018 e di 67 mila unità nel 2020). Poi, un recente studio scientifico ha stimato che, in Italia, 800 professioni potrebbero essere automatizzate e sono a rischio tra i 3 e i 7 milioni di lavoratori.
Il dibattito sull’Ia si è così ridotto a vedere l’ingresso dei robot come un’aggressione alla società. Al contrario, bisognerebbe capire perché in Italia questo processo non è avvenuto in modo progressivo. Ancor più, bisognerebbe capire i possibili benefici della robotica in un mondo sempre più industrializzato. Dunque, si dovrebbe pensare ad una catena globale in grado di supportare le nuove forniture. E se le professioni con alta probabilità di automazione riguardano trasporti, logistica, supporto d’ufficio, produzione e settore della vendita, come, dove e in quanto tempo avverrà la riconversione di questi lavoratori? Dicevamo che, sì, ci sono ancora validi motivi per investire nell’Ia. Ma ora è necessario fare presto e fare di più. E farlo meglio, possibilmente.