categoria: Vicolo corto
Gap tra uomini e donne: il punto delle scienze sociali sulla discussione
Nel dibattito pubblico italiano continuiamo a chiederci se effettivamente uomini e donne presentino delle differenze strutturali in termini di propensione a competere, e se questo sia poi la causa principale delle disuguaglianze osservate nell’accesso al mercato del lavoro, a ruoli politici ed in altri ambiti competitivi. Si tratta di un interrogativo importante, considerando che se in effetti il problema sta nella biologia, le politiche pubbliche potranno fare poco per cambiare la situazione.
Questa tematica è stata affrontata a lungo dalle scienze sociali, che hanno provato a dare una risposta all’annosa questione. Gli studi contemporanei confermano la presenza di differenze nella propensione a competere e nelle preferenze riguardo alle modalità lavorative. Tuttavia, mostrano anche come questi divari siano spiegati per lo più da fenomeni di internalizzazione delle norme sociali riguardo ai ruoli di genere, che generano delle aspettative alle quali le persone tendono ad adeguarsi, piuttosto che da un’intrinseca differenza fra i sessi. Le norme sociali si rivelano essere i principali fattori di riproduzione culturale delle relazioni di genere.
Cosa viene infatti considerato “normale” influenza fortemente i comportamenti delle persone in molti ambiti, poiché ci aiuta a coordinarci con gli altri, in particolare quando c’è incertezza. Sull’importanza di questo aspetto, due esperimenti possono aiutarci a fare chiarezza. Nel primo esperimento, realizzato in Italia, Spagna ed Olanda, a due gruppi misti di uomini e donne è stato chiesto di svolgere un semplice esercizio in cui dovevano sommare dei numeri presentati in delle matrici, venendo pagati per ogni somma corretta. Mentre il primo gruppo ha svolto l’esercizio privatamente, nel caso del secondo gruppo il numero di somme correttamente eseguite e la posizione in classifica venivano comunicate in pubblico dal partecipante. Il risultato interessante è che mentre in Olanda non si sono registrate differenze rilevanti nel numero di somme corrette tra uomini e donne nelle due condizioni sperimentali, in Spagna ed Italia le donne hanno performato molto peggio degli uomini quando sapevano che sarebbero state paragonate agli altri. Allo stesso tempo in tutti i paesi, quando l’esercizio era svolto in privato, donne e uomini hanno performato in maniera simile. La differenza tra comportamenti pubblici e privati rivela l’importanza delle aspettative sociali, ed in particolare dello status sociale e degli stereotipi di genere, nell’influenzare la performance individuale (risultato per altro replicato anche da un lavoro precedente). A ulteriore supporto di questa teoria, uno studio condotto comparando società matrilineari e patrilineari, mostra che solo in queste ultime le ragazze diventano meno propense alla competizione, una volta raggiunta la pubertà.
In altre parole, le donne non si auto-selezionano in industrie o posizioni meno remunerative per mancanza di ambizione, sicurezza di sé, o spavalderia, ma per conformarsi ai canoni di ciò che una donna può o non può essere e fare (oltre che per noti squilibri di carico del lavoro domestico). Infatti, da un recente studio emerge che nemmeno le studentesse di una prestigiosa Business School americana, per cui arrivano a pagare duecentomila dollari l’anno, sono immuni da dinamiche del tipo descritto qui sopra. Gli autori notano che le studentesse non sposate si comportano in modo diverso in esperimenti privati, ovvero quando le loro scelte o azioni non sono note al resto della classe, rispetto a quelli pubblici, ovvero quando queste sono condivise con i loro colleghi di corso. Al contrario, le studentesse sposate non manifestano alcun cambiamento. Per esempio: nell’esperimento pubblico, le studentesse single sono più propense a dichiarare di preferire (attenzione: non di preferire!) lavori con minori trasferte o un orario di lavoro flessibile. L’esperimento è cosiddetto high-stakes, ovvero ad alto impatto economico. Infatti, in base alle loro risposte, l’università dà loro la possibilità di interagire con le risorse umane di diverse aziende in diverse industrie. Dichiarando di preferire lavori meno competitivi, possono quindi perdere l’opportunità di ottenere posizioni molto remunerative, come quelle nelle banche d’affari o società di consulenza. La logica sottostante allo studio è che le donne single sono più suscettibili alle norme sociali dettanti gli stereotipi di genere rispetto a quelle sposate, al fine di massimizzare la probabilità di trovare un partner – , come trovano gli autori. Insomma, se le norme sociali influenzano persino le donne più istruite, e che investono fior di quattrini per un Master in Business Administration, il problema è lampante. Per avere una panoramica generale sull’attuale situazione in Italia può essere utile guardare i dati Istat sul mercato del lavoro, in particolare quelli relativi al tasso di attivi, per regione, differenziati in base al genere. Le rilevazioni, condotte nel 2020 lasciano emergere il seguente quadro:
Ciò che risalta maggiormente è la disomogeneità dei valori nel tasso di attività delle donne tra le diverse aree della penisola, con picchi estremamente alti in tutte le regioni meridionali. Se la questione fosse soltanto biologica, non dovremmo osservare queste disparità. Non solo le donne inattive sono quasi il doppio rispetto agli uomini, ma il fattore che più di tutti le scoraggia a cercare lavoro sono i “motivi familiari”. Secondo il Rapporto Istat del I trimestre del 2021 infatti, gli uomini che non cercano lavoro per motivi familiari sono solo il 2,8% contro il 33,7% delle donne.
Indicativo è anche il contributo di Casarico e Lattanzio su Lavoce, in cui si presenta un altro controverso versante di esplicitazione del gender gap. I due autori puntualizzano la questione della “child penalty”. Attraverso un confronto su due gruppi di dipendenti, uno composto da madri facenti ricorso al congedo parentale, mentre le altre no, vengono illustrati gli effetti che la maternità produce sulla situazione occupazionale e sul reddito delle neo-mamme. Nel periodo successivo alla richiesta del congedo si osserva che, oltre a un calo significativo dei salari, si riduce anche il numero di ore lavorate a settimana, e sono molto più frequenti i ricorsi a contratti lavorativi part-time, funzionali a mantenere gli impegni nella cura dei figli. Le prospettive per una donna lavoratrice che decide di avere figli sono fortemente penalizzanti, considerando che gli effetti non sono solo di breve termine, ma possono protrarsi fino anche a 15 anni dopo il parto, rendendo difficile il reinserimento integrale nel mercato del lavoro.
Insomma, le differenze occupazionali e salariali tra uomini e donne, palesi nei dati, hanno a che fare sì con alcune differenze strutturali. Tuttavia, la struttura che intendiamo noi non è quella biologica, ma quella sociale, che replica gli stereotipi generazione dopo generazione, determina una suddivisione dell’economia domestica in modo squilibrato, e offre un’impalcatura di servizi insufficiente per le donne che vogliono conciliare vita e lavoro. È pertanto evidente l’urgenza di politiche pubbliche su due versanti. Il primo è quello dell’incentivazione di una divisione più equa dell’economia domestica, per esempio mediante i congedi di paternità e ampliando l’offerta di asili nido. In secondo luogo, bisognerebbe veicolare una maggiore informazione sulle questioni di genere, al fine di cambiare (si può fare!) le norme sociali che dettano ancora oggi i comportamenti di uomini e donne.
Ha collaborato all’articolo:
Arianna Gatta – Frequenta il PhD allo European University Institute con una tesi sulle condizionalità del welfare. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo