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Coniugare il profitto con il sociale, ecco come crescono le aziende benefit
Post di Gianluigi De Marchi, consulente finanziario, giornalista e scrittore –
Sono una realtà giovane, ma in forte e costante crescita, che sicuramente in futuro darà una svolta significativa al sistema economico nazionale.
Le aziende benefit sono ormai un migliaio, ed annoverano nel gruppo non solo piccole realtà locali, ma anche nome prestigiosi dell’industria come Danone, Illycaffé, Alessi; e molte sono in “lista d’attesa” per completare la trasformazione della loro natura per abbracciare la filosofia di azienda sostenibile.
Le aziende benefit sono state regolamentate in Italia dalla legge n.208 del 28/12/2015 che ne fissa i requisiti, che ha preso spunto da una normativa americana elaborata per la prima volta dal Delaware nel 2010.
Diventare azienda benefit significa cambiare radicalmente il proprio statuto ed i propri obiettivi: fermo restando l’obiettivo base, irrinunciabile, del conseguimento del profitto, l’azienda s’impegna a realizzare anche finalità d’interesse comune, a beneficio della collettività. In particolare l’azienda benefit opera per mantenere corrette relazioni industriali, un attivo rapporto con le comunità locali, un’attenzione costante alla tutela dell’ambiente, una collaborazione con associazioni di volontariato o della società civile, un sostegno alle attività culturali.
In una parola, non si persegue più l’ottenimento del massimo profitto nel breve termine, ma del profitto “utile” nel lungo termine, che vada a beneficio non solo degli azionisti ma anche della collettività.
Può sembrare un controsenso, dopo secoli di corsa verso una crescente creazione di ricchezza ad esclusivo appannaggio dei soci, ma l’emergere di istanze diverse da quelle puramente economiche e finanziarie ha iniziato a condizionare anche modalità operative che sembravano intoccabili. Il fenomeno è stato probabilmente innescato anche dalle crisi susseguitesi negli ultimi decenni non solo nel campo finanziario (legate all’avidità degli operatori internazionali – si pensi, solo per fare un esempio, al crack Lehman – ) ma anche nel campo ambientale (drastiche variazioni climatiche con fenomeni gravissimi di sconvolgimenti meteorologici) e nel campo sanitario (la pandemia da Covid ha smosso molte coscienze e creato le condizioni per una profonda riflessione sui modelli economici).
L’idea che le aziende possano fare tutto ciò che vogliono, limitandosi a compensare gli eventuali danni che provocano pagando le tasse (delegando allo Stato il compito di porre rimedio, a spese della collettività, alle situazioni deteriorate) ha lasciato spazio all’idea che siano esse stesse a preoccuparsi di operare in maniera da non provocare danni.
Un’azienda benefit si pone quindi in una posizione di attiva collaborazione con la società, impegnandosi in attività sociali che siano non solo utili ma soprattutto misurabili e verificabili (tanto che i bilanci debbono essere compilati in maniera tale da evidenziare proprio questi aspetti).
In pratica, si realizza un modello d’azienda intermedio tra quello tradizionale (ricerca della massimizzazione del profitto) e quello sociale (le Onlus, che puntano solo alla soddisfazione di bisogni collettivi), coniugando il profitto con il sociale. Modello che alcuni hanno definito, con un efficace termine, “ibridazione gestionale d’azienda”.
Perché l’essenziale non è come si distribuiscono i proventi, ma come si produce, come si trattano i lavoratori, come si conserva l’ambiente e così via: in una parola come si applica l’etica al mondo imprenditoriale.
Per ottenere la “patente” di società benefit occorre passare un vero e proprio esame attraverso un ente internazionale di certificazione (chiamato B Lab). Questo è un punto fondamentale, per evitare fenomeni di greenwashing (cioè manovre di maquillage sociale tendenti a dare un’immagine di positività senza però produrre realmente benefici sociali).
Si parte da un questionario in cui si raccolgono i dati aziendali (capitale sociale, utilizzo di materie prime, ore lavoro impiegate, ecc.) che vengono “tradotti” in punti, calcolati per misurare il valore generato. Su un massimo di 200 punti, occorre raggiungere un punteggio minimo di 80, che indica che si genera più valore di quello consumato.
Quali vantaggi si possono individuare nell’opzione di diventare azienda benefit, e quali ostacoli esistono per una diffusione più ampia del fenomeno?
Non ci sono vantaggi monetari immediati; ad esempio, non sono previste agevolazioni fiscali o bonus o incentivi specifici per le aziende benefit. Ma il vantaggio maggiore che si può ricavare è in termini di immagine: un’azienda benefit attira l’attenzione del pubblico, dei media, dei risparmiatori. Una “operazione simpatia” che, se non si traduce in maniera immediata e concreta in maggiori utili, porta comunque benefici (ad esempio attrae investitori sensibili alle problematiche dell’etica e del corretto posizionamento nell’ambiente).
Tra gli ostacoli possiamo individuare una forte resistenza da parte delle grandi società, in particolare di quelle quotate in Borsa, che devono rispondere ai loro azionisti remunerandoli in maniera soddisfacente. Passare da società “tradizionale” a benefit significa, soprattutto nel breve periodo, doversi accontentare di minori utili e di minori dividendi, poiché l’utile dovrà essere destinato anche ad interventi ed investimenti nei settori sociali e della salvaguardia ambientale. Più facile l’adozione del modello da parte di aziende medio-piccole a conduzione famigliare, più sensibili al rapporto con il territorio e più vicine alle esigenze locali in cui operano.
In un’ottica di medio-lungo periodo, però, è sicuro che certe impostazioni cambieranno: l’attenzione verso l’etica e l’ambiente sta crescendo e prima o poi tutti dovranno fare i conti con comportamenti “virtuosi”.