categoria: Vicolo corto
Quando medici e avvocati non avevano diritto all’onorario
Nell’antica Roma, medici, avvocati, precettori e, più in generale, tutti i professionisti di rango elevato, la cui prestazione era prevalentemente intellettuale, non dovevano ricevere alcun compenso. Oggi, è difficile immaginarne la ragione; è strano pure a dirsi; ma, all’epoca, pagarli era atto contrario alle norme del buon costume. Essi erano considerati interpreti ed esecutori di un vero e proprio mandato e, in qualità di mandatari, non avevano diritto alla remunerazione. Si sosteneva addirittura qualcosa di simile: ciò di cui si ha profondamente bisogno non può essere stimato in denaro. Insomma: sarebbe stato immorale, come abbiamo lasciato intendere; non si poteva, per esempio, stabilire il prezzo della salute.
Tacito, negli Annales, ammonisce severamente gli avvocati:
Ne quis ob causam orandam pecuniam donumve accipiat [Nessuno accetti un dono o del denaro per sostenere una causa [TACITO, Annales, XI, 5, trad. nostra, in Cornelii Taciti Opera, tomus tertius, a cura di G. Brotier, 1776, Parigi, Tip. Delatour, p. 15)]
Salvatore Battaglia, nel Grande Dizionario della Lingua Italiana (1961-2002), definendo la voce onorario, fa notare che, quand’anche gli esperti avessero ricevuto delle somme di denaro, si sarebbe trattato di donativi onorifici, non già di un vero e proprio pagamento, che sarebbe risultato addirittura incompatibile sia col loro ruolo nella società sia con la concezione del lavoro. Onorario è un sostantivo il cui uso originario, come si può intuire, è prettamente latino: hŏnōrārĭum è il neutro sostantivato di hŏnōrārĭus e significa tributo volontario determinato dal valore di hŏnŏs, stima, rispetto, onore. Tale significato potrebbe sembrare incongruente rispetto a quanto abbiamo scritto finora, tuttavia bisogna aggiungere che la norma veniva comunemente e serenamente violata, sulle prime, con modesti e liberi pagamenti di riconoscenza fatti dal beneficiario. È pur vero che, a un certo punto, il nobile principio venne meno e questa forma di gratitudine fu disciplinata da una legge, la Lex Cincia de donis et muneribus (204 a.C.); della qual cosa ci dà testimonianza indiretta Cicerone nel De Oratore.
Etiam sententiose ridicula dicuntur, ut M. Cincius, quo die legem de donis et muneribus tulit, cum C. Cento prodisset et satis contumeliose “quid fers, Cinciole?” quaesisset, “Ut emas,” inquit “Gai, si uti velis.” [In tono sentenzioso, si dicono anche cose ridicole; quando Cincio portò, un giorno, la legge sui doni e le regalie, essendo venuto fuori Centone e avendo(gli) chiesto in maniera abbastanza offensiva “che cosa porti, piccolo Cincio?”, (quello) rispose “Gaio, che tu compri ciò che ti serve” (CICERONE, Dialogi tres, De oratore, II, 71, trad. nostra, a cura di V. Betolaud, 1903, Parigi, Imp. P. Brodard)]
Nel 42 a.C., col senatusconsultum Claudianum de repetundis, i buoni propositi, per così dire, furono del tutto abbandonati e fu stabilito per legge che gli avvocati potessero percepire in dono, per la propria prestazione, fino a diecimila sesterzi e che, se si fosse superata questa somma, essi sarebbero stati passibili dell’accusa di concussione. La concessione da parte di Claudio fu effetto dell’udienza a una delegazione di senatori, che erano anche avvocati e chiedevano l’abrogazione della lex Cincia. Essi sostennero che, senza l’incentivo del guadagno, sarebbero morti anche gli studi di retorica.
Se l’onorario era comunque la retribuzione dei liberi professionisti, i quali, in seguito alla concessione dell’imperatore, potevano incassare anche diverse migliaia di sesterzi, diverso è l’iter linguistico-sociale dello stipendio, che, dalla genesi ai nostri giorni, ha sempre riguardato l’attività svolta dai lavoratori subordinati, impiegati e funzionari. I primi a riceverlo furono i soldati romani. In pratica, a partire dall’età repubblicana e, in particolare, in occasione della guerra contro Veio (497-396 a.C.), allo scopo di implementare l’esercito si dovette ricorrere alla leva volontaria, ma, nello stesso tempo, fu necessario offrire un compenso a coloro che, essendo nullatenenti, non potevano permettersi l’equipaggiamento. In precedenza, infatti, le truppe non erano stipendiate: si entrava nell’esercito per censo e bisognava avere la capacità economica di acquistare l’armatura.
L’istitutore della paga, stando a Livio, fu Furio Camillo, proprio nel 407 a.C.
Additum deinde omnium maxime tempestivo principum in multitudinem munere, ut ante mentionem ullam, plebis tribunorumue decerneret senatus, ut stipendium miles de publico acciperet, cum ante di tempus de suo quisque functus eo munere esset [Si aggiunse poi un dono quanto mai opportuno della nobiltà alla plebe: il senato, prima che la plebe e i tribuni ne avessero mai fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero una paga dal pubblico erario, mentre prima di allora ciascuno prestava servizio militare a proprie spese (TITO LIVIO, Storie, LL. I-IV, a cura di L. Perelli, 1997, UTET, Torino, pp. 776-777)]
In realtà, è verosimile che il sussidio fosse modesto; di sicuro, non era paragonabile all’onorario. La stessa analisi dell’etimo ci spinge a confermare questa ipotesi. Stipendio deriva dal latino stĭpendĭum, che, a propria volta, è un esito della parola stipipendium, composta da stips, moneta, piccola moneta, obolo, addirittura elemosina, e pendere, ossia pesare. Quest’ultimo significato è ampiamente giustificato dal fatto che, nel primo periodo repubblicano, non esisteva ancora un conio, cosicché, di volta in volta, si era costretti a pesare la quantità di metallo corrispondente al pagamento. Si è pure ipotizzato che stĭpendĭum fosse, più che una retribuzione in denaro, una retribuzione in ‘cose’, nella fattispecie in alimenti. In ciò, si è supportati dall’equivalente greco, cioè da ὀψώνιον (opsònion), un composto di ὄψov (òpson), companatico, cibo, carne e, dopo Omero, anche pesce, e ᾠνέομαι (onèomai), mi procuro, acquisto; la qual cosa indicherebbe, per l’appunto, che la paga militare consistesse proprio di cibo.
A ogni modo, la coscrizione volontaria dietro pagamento di stipendio divenne legge sotto Mario, nel 107 a. C., quando tutti i cittadini poterono accedere all’arruolamento, indipendentemente dal benessere e dalla classe sociale. Tale arruolamento fu necessario dopo che Mario, ottenuto il consolato, fu nominato dal popolo – atto, questo, assolutamente insolito, se non illegale, dato che il comando veniva affidato ai generali dal senato – comandante dell’esercito che avrebbe dovuto porre fine allo scontro (112-105 a. C.) con Giugurta, re di Numidia. Egli, in poco tempo, trasformò un esercito di avventurieri in una compagine potente e disciplinata che portò a termine l’impresa con successo.
In quanto all’importo dello stipendio dei soldati e alla sua esiguità, basta ricordare che, solo sotto Cesare, si passò dai 1.200 assi annui ai 3.600. Se si considera che 1 asse equivaleva, grosso modo, a 1,50 euro attuali, si può comprendere che si trattasse di una sorta di bonus e nulla di più.
In un normale dizionario della lingua latina, non si fa fatica a trovare salario, tra i sinonimi di stipendio: sălārĭum è reso con paga, stipendio, onorario. Tra le altre cose, si afferma chiaramente che il suo uso si estendeva al concetto di paga dei soldati. Il nostro pensiero, diversamente, quando si parla di salario, corre direttamente al mensile dell’operaio e, da un punto di vista tecnico, per chi ha un po’ di dimestichezza col linguaggio dell’economia, alla retribuzione del fattore lavoro, che, assieme al capitale, determina la produzione. La sua storia semantica, in realtà, è un po’ controversa a causa dell’errore ermeneutico commesso a lungo da molti studiosi del XVIII e del XIX secolo. Essi, molto probabilmente, facendo leva su una sorta di inferenza semantica e tenendo conto del fatto che sălārĭum deriva da sălārĭus, del sale, relativo al sale, supposero che il pagamento dei soldati avvenisse direttamente in sale, forse anche con delle monete di sale, ma nella letteratura latina non si trova alcuna attestazione di pertinenza, tanto che Peter Gainsford, studioso della classicità greca e latina, in Sale e stipendio I soldati romani erano pagati col sale? (2017, blog personale), ritiene che talune affermazioni siano addirittura frutto di fantasia. Gainsford pensa, piuttosto, che nel termine sălārĭum vada visto un donativo in denaro ‘utile ad acquistare il sale’, da intendere come qualunque altro bene di necessità, ad esclusione del grano, dato che a Roma questo era in gran parte coltivato quasi dappertutto e veniva donato anche alla plebe.
Il denominatore comune dei termini che abbiamo presi in considerazione potrebbe essere paga, sebbene sia necessario escludere onorario, che va da sé per i motivi suesposti. Anche paga è un sostantivo prettamente latino e trae origine dal verbo pācāre, che vuol dire soddisfare, pacificare, ma anche ingentilire, calmare; per la qual cosa il grammatico Alberto Accarisio (1497-1544), nel farne uno studio filologico scrisse: “Pago è detto da Paco latino che vale concordo, per ciò che il debitore quando paga il suo creditore et lo contenta et quasi fa pace con lui” (1543). In poche parole, sia attraverso il riconoscimento del lemma originario sia attraverso la chiosa di Acarisius, l’aspetto dominante è strettamente psicologico o, più semplicemente, emotivo: quali che siano la fonte del pagamento, il destinatario e l’importo, ricevere una somma di denaro fa sempre bene. Questo commento potrebbe essere percepito come banale e scontato, ma così non è e possiamo averne riscontro risalendo alle radici indoeuropee del verbo in questione, *pak- e *pag-, per le quali consultiamo Ernout e Meillet (2001). Di primo acchito, potremmo essere tratti in inganno o fuorviati dal significato di fissare, conficcare, piantare. Approfondendo, però, ci rendiamo conto che la natura duplice della radice ci porta una particolare ricchezza dialettica. Nel caso della variante radicale *pag-, fissare assume una valenza materiale propria del palo, per esempio, che viene conficcato in una determinata zona. Diversamente, con *pak-, si ha fissare di comune accordo, da cui si genera l’insieme lessicale dell’economica, per così dire.
È doveroso concludere brevemente con una curiosità, cui, di fatto, si può giungere anche intuitivamente. Lo facciamo anche e soprattutto per offrire un’informazione quanto più completa possibile. Appannaggio, parola che, di solito, fa storcere il naso ai più, essendo considerato un vantaggio concesso a pochi, è entrato nella lingua italiana attraverso il francese apanage, che deriva dall’antico apaner, dare del pane. La matrice morfologico-semantica del termine francese, però, è il latino pānis, pane. L’appannaggio, in sostanza, era una vera e propria dote che, nel medioevo, spettava ai cadetti e consisteva nell’assegnazione di terre quali rendite vitalizie. L’istituto fu concepito da Ugo Capeto (941-996 d.C.) in contrasto col sistema feudale strutturato fin dai tempi di Carlo Magno, che prevedeva la dotazione solo ai primogeniti. Precisiamo che, qui, per esigenze di contesto, semplifichiamo la storia di un’istituzione che, nella realtà, è molto più complessa e richiederebbe altre forme di approfondimento.
Fa sorridere che un compenso per mansioni o cariche particolari, comprese quelle di un sovrano, possa consistere in pane, ma il termine ha un proprio senso se lo si contestualizza nel suo tempo, che era quello in cui i figli cadetti, ovvero quelli nati dopo il primo di una famiglia prestigiosa, non avevano praticamente il diritto di ricevere alcunché dal padre, fuorché, con una certa forzatura semantica, a malapena del pane.
Bibliografia minima essenziale
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