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L’Europa sopravviverà al Covid senza un progetto politico?
Post di Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, Muratore si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per “Inside Over” e svolge attività di ricerca presso il CISINT (Centro Italiano di Strategia ed Intelligence) e il centro studi Osservatorio Globalizzazione –
Il mondo a quasi due anni dall’inizio della pandemia di Covid-19 è virato. In ogni senso. Virato perché ancora costretto a fare i conti con la pandemia, la cui “prova del nove” sarà la stagione autunnale che le nazioni più avanzate della Terra affronteranno con campagne di vaccinazioni, presumibilmente, alla fase terminale o in via di completamento. Ma virato anche perché il virus ha assunto la connotazione di una cesura epocale. Fungendo da catalizzatore di cambiamenti sistemici, di rivalità geopolitiche, di traiettorie storiche. Mostrando l’immanenza del possibile cambio di paradigma legato alla sovrapposizione tra nuove dinamiche economiche, l’urgenza della questione ambientale, la rilevanza degli sviluppi nella tecnologia e dei suoi effetti sulle relazioni internazionali.
Il virus che cambia la globalizzazione
Il virus acceleratore ha portato a un pieno disvelamento della necessità di pensare la globalizzazione in termini complessi, di sistema-mondo, di analizzare in termini storici e multidisciplinari i fattori di cambiamento.
Soprattutto, il Covid ha prodotto quella che potremmo definire una “Grande Tempesta” fungendo da fattore di sdoganamento di rivalità geopolitiche, sfide geo-strategiche, dinamiche di potenza. La battaglia per i vaccini è solo una delle grandi questioni che hanno animato l’ultimo anno. Le partite energetiche (Opec, Mediterraneo orientale), per il controllo delle risorse idriche (Egitto-Etiopia sul Nilo, India-Cina sul Brahmaputra), per la risoluzione di vecchie questioni aperte (Nagorno Karabakh) si sono, a più riprese, riaperte. In tutto il mondo il Covid non ha fermato la corsa al riarmo, allo sviluppo di nuovi sistemi di difesa, nuovi rapporti di forza. Paesi come l’Iran hanno ripreso la corsa agli armamenti atomici, in Medio Oriente Siria, Iraq e il confine israelo-palestinese restano fronti caldi e resta la grande incognita dell’instabilità africana.
La possibile crisi energetica mette a repentaglio le prospettive di una ripresa che vaccini e immunizzazioni di massa hanno, potenzialmente, abilitato ma che deve scontare ancora la mancata assimilazione dei nuovi paradigmi geopolitici da parte delle economie mondiali, oltre che la fragilità delle dinamiche domanda/offerta in diversi settori e l’ancora incompleta ristrutturazione di molte catene del valore.
Il mondo intero, poi, si va accorgendo delle dinamiche globali legate al braccio di ferro tra Cina e Stati Uniti. Sempre più consolidato come “nuovo bipolarismo” che fa sentire i suoi effetti su scala mondiale.
La sfida tra i due giganti (1) si combatte su cinque dimensioni: a terra, aria e mare si devono aggiungere lo spazio e l’infosfera. Quest’ultimo terreno potrebbe, a uno sguardo superficiale, apparire come il più volatile. Nulla di più sbagliato: il digitale è fisico, l’immateriale è concreto. La base della filosofia confuciana che ha posto le radici della cultura dell’Impero di Mezzo potrebbe sintetizzare in un detto di questo tipo la profonda contraddizione tra la vulgata tipica riguardante l’innovazione e il mondo dei dati (azzeramento delle distanze, iperconnessione, creazione di un universo sempre più virtuale) e una realtà che ci parla in maniera ben diversa.
Sia nel caso in cui al nuovo bipolarismo che mette di fronte Stati Uniti e Cina (2) si voglia dare la definizione di “nuova guerra fredda” (3) sia che si ritenga prematuro un appellativo del genere o si considerino più appropriate altre categorie di confronto (4), è semplice constatare come in un settore ben preciso di elevata rilevanza strategica la competizione tra le due superpotenze abbia da tempo assunto la forma di un conflitto generalizzato. Stiamo parlando proprio del comparto tecnologico e della sfida per il controllo del suo sviluppo, dell’innovazione di frontiera e dei conseguenti dividendi economici e geopolitici. Elettronica di precisione, reti di telecomunicazione, 5G, intelligenza artificiale, computazione quantistica, cloud dati: i terreni di scontro legati alla rivoluzione tecnologica in atto sono molteplici e sia a Washington che a Pechino è ferma la convinzione della decisiva importanza della battaglia.
La costruzione delle reti di telecomunicazione è solo la punta dell’iceberg: da un lato, al di sotto di essa vi è la complessa partita economica e geopolitica per l’approvvigionamento dei materiali e dei componenti decisivi per l’industria tecnologica. Dall’altro, invece, si posiziona il fronte delle innumerevoli applicazioni della rivoluzione tecnologica, cui fanno riferimento gli impatti dei nuovi paradigmi manifatturieri sulle catene del valore globali, il controllo degli strategici e molto spesso giganteschi data center (più materiali che mai) da cui si irradiano i flussi informativi che rappresentano una miniera d’oro per apparati securitari e operatori economici, e il governo delle conseguenze sociali dell’innovazione (5).
La rivalità tecnologica sino-statunitense è in un certo senso paragonabile alla rivalità per il riarmo navale che coinvolse Germania ed Impero Britannico a cavallo tra il XIX e il XX secolo (6): l’egemone, un tempo Londra e oggi Washington, pur conscio della minaccia non iniziò a reagire in maniera sistematica fino a che non si rese conto della già avvenuta ascesa dell’avversario. Allora come oggi, l’obiettivo della corsa divenne la costruzione dei nuovi standard del settore: e se nella corsa al riarmo navale fu la Gran Bretagna a centrare il colpo edificando la Dreadnought, corazzata monocalibro entrata in vigore nel 1906 che con la combinazione tra apparato propulsivo a vapore e cannoni pesanti e di calibro uniforme rese di fatto obsolete tutte le unità allora in circolazione, gradualmente gli Stati Uniti si sono resi conto di essere, in questa corsa, costretti a rincorrere. La “Dreadnought” della partita tecnologica si è rivelata essere la tecnologia 5G. Terreno di scontro su cui la guerra tecnologica è infine diventata “calda”.
La salienza della partita tecnologica si fa sentire con ancora maggior forza alla luce dei cambiamenti indotti dalla pandemia sull’economia globale.
Il Covid, Giano bifronte
Il coronavirus è un Giano bifronte perché ha creato, al tempo stesso, più e meno globalizzazione. I singoli cittadini dei Paesi in lockdown hanno eletto il “sovranismo” a principio guida delle proprie abitazioni mentre i Paesi seguono sempre di più la strada del nazionalismo economico, è vero. Ma al tempo stesso temi come la diffusione dello smartworking, l’ampliamento del traffico internet, la dipendenza delle società dalle reti di telecomunicazione, la sorveglianza crescente su dati e spostamenti delle persone rafforzano la presa sociale del motore immobile della più recente fase della globalizzazione, il complesso tecno-finanziario. Di cui Washington e Pechino controllano le determinanti tecnologiche e geoeconomiche per il cui controllo si scontrano.
Con una lucidità notevole, Paolo Savona ha a inizio pandemia evidenziato con grande lucidità il tema cruciale della questione in un’analisi per Il Sole 24 Ore: “La diffusione territoriale del coronavirus è la naturale espressione della globalizzazione degli scambi delle merci e dei servizi, ai quali si accompagnano i movimenti delle persone, principali veicoli dell’infezione. I modi per affrontare la crisi sanitaria ed economica dovevano essere decisi cooperando a livello globale, ma questa è esplosa in un momento in cui le relazioni internazionali si trovano al minimo post bellico e post caduta del comunismo sovietico” anche e soprattutto per la sfida sino-statunitense. La fisiologica natura competitiva delle relazioni tra nazioni emerge proprio in una fase in cui più che mai la retorica del destino condiviso molto spesso propugnata dalle organizzazioni sovranazionali avrebbe senso e dovrebbe corrispondere a iniziative concrete.
E l’evoluzione delle relazioni tra Pechino e Washington da inizio Covid in avanti ha visto una concretizzazione delle previsioni del navigato economista sardo. Nonché una conferma della totale assenza di consistenza geopolitica da parte dell’ Europa. Capace di affidarsi all’intervento della Bce e al Next Generation Eu per tamponare, sul fronte economico, gli effetti della crisi, evitando la riproposizione dell’errore austeritario del decennio prima, ma assente nella definizione delle linee di tendenza politiche per la costruzione del mondo post-pandemico. E la matrice è, come spesso successo in passato, geopolitica.
La sfida cruciale per l’Europa
La pandemia rischia di cancellare definitivamente qualsiasi velleità residua di vedere l’Unione Europea intesa come organizzazione giocare un ruolo da soggetto nella storia. Dalla risposta alla pandemia alla campagna dei vaccini, dal ripensamento delle sue funzioni al rapporto con il resto del mondo Bruxelles è stata la grande e prevedibile assente. Recep Tayyip Erdogan, con il “Sofagate” e lo schiaffo diplomatico a Ursula von der Leyen dei mesi scorsi, ha certificato la realtà dei fatti assieme al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, che ha definito “inesistenti” le relazioni con Bruxelles: nel mondo della Grande Tempesta sono gli Stati a decidere, non le organizzazioni tecnocratiche. Il Covid ha svelato che il re è nudo, che Francia, Germania, Regno Unito, perfino su certi punti di vista l’Italia hanno una soggettività concreta che all’ Europa manca. La drammaticità della crisi afghana ha, se possibile, ulteriormente rafforzato questo convincimento.
Ora più che mai ci accorgiamo che il limite principale dell’Unione Europea è stato il rifiuto di costruire un progetto politico in grado di cooptare per un fine comune e realistico ideali e valori condivisi e porsi in continuità con una storia, spesso tragica, che ha reso a lungo l’ Europa motore della cultura mondiale. Il cui ripudio ha contribuito a produrre l’involuzione delle classi dirigenti veterocontinentali verso la melassa tecnocratica incapace di rispondere con flessibilità alle crisi dell’ultimo ventennio, Covid incluso. Con buona pace del mito della “resilienza”.
La cultura europea “dimenticata” è stata personificata dall’ex ministro Giulio Tremonti nel suo ultimo saggio Le tre profezie nelle figure di Karl Marx, Johann Goethe e Giacomo Leopardi, capaci di fornire a suo parere chiavi di letture nel mondo contemporaneo. Marx come lettore delle forze che il capitalismo internazionale sprigiona senza saperle controllare; Goethe con la lezione di Faust che vende l’anima e la ragione al diavolo insegna i rischi di cedere la propria “anima” a un fattore esterno, nel nostro mondo i potentati tecnologici; Leopardi, infine, “è sceso nei segreti della storia e svela l’andamento circolare e non lineare delle civiltà, la crisi di Roma quando diventa globale”.
L’Europa è debole perché debole è il sottofondo valoriale, politico, istituzionale dell’Unione. Utopia antipolitica sballottata nel mare agitato della globalizzazione in crisi, di cui non ha saputo cogliere la dinamica competitiva e iper-politica. Nel suo recente saggio Le potenze del capitalismo politico Alessandro Aresu, editorialista di Limes ora entrato nel team dei consulenti di Mario Draghi, ha scritto che “ogni coordinata indica il tramonto dell’ Europa, in forma intergovernativa, in forma federale o nelle altre forme su cui possiamo litigare, e litigheremo”: demografia, finanza, industria, coesione, tecnologia e via discorrendo.
Tutto questo per una debolezza di progettualità politica che è, in fin dei conti, fragilità valoriale, assenza di visione. Come giustamente ha fatto notare Tremonti approfondendo temi già toccati nel suo dialogo con Andrea Indini de ilGiornale.it, quando paragonò l’effetto della crisi in corso sulla globalizzazione alla pallottola che uccise a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando.
Classe dirigente e cultura: l’ Europa della fine del Novecento e degli inizi degli Anni Duemila declina perché non sa conoscere se stessa, i suoi limiti, la sua direzione della storia e non produce più uomini, leader e statisti capaci di guardare alla radici di una cultura millenaria. Marx, Goethe e Leopardi sono esponenti di un panorama culturale e ideologico più ampio che ha prodotto tutte le forze capaci di irradiarsi nel pianeta come strumenti di mobilitazione politica, dal liberalismo al socialismo, una visione valoriale di ampio respiro e un mosaico di figure che andrebbero riscoperte, da San Tommaso a Jacques Maritain, da Adam Smith a Carl Schmitt (titolo, non a caso, di un capitolo del saggio di Aresu), dal cardinale Richelieu e Nicolò Machiavelli a Max Weber. Dalla filosofia alla teologia, dalle dottrine dello Stato all’economia, una rosa di pensieri e culture in larga parte eterogenea, mosaico di una diversità intrinseca che è stata la faglia dell’Europa, continente lacerato da lotte e conflitti, ma anche la fonte della sua vivacità culturale, della sua proiezione globale.
Tutto questo era ben scolpito nelle menti di coloro che, dopo la seconda guerra mondiale, cominciarono il processo di ricostruzione del Vecchio Continente, ispirato da un’ideologia politica fondata sulla compenetrazione tra le vive forze degli Stati e le esigenze del mercato. Ma la lezione, da tre decenni a questa parte, sembra esser stata dimenticata in nome di un economicismo autoreferenziale.
Ora, nella Grande Tempesta, queste realtà vengono a galla. Il Covid disegna nuovi equilibri e consolida rapporti di forza che portano il Vecchio Continente alla periferia del sistema-mondo, ma nell’occhio del ciclone nella contesa globale tra Stati Uniti e Cina. Il declino dell’ Europa era la questione più spesso sottaciuta nel dibattito internazionale prima della pandemia. Il virus acceleratore ne ha dato contezza all’opinione pubblica globale. Per cambiare, in prospettiva, a dover essere superate saranno numerose distorsioni nel modo di conduzione dell’economia, dell’approccio alla politica e del vivere sociale che erano già all’origine della Grande Crisi iniziata nel 2007-2008 e che sono state poi volutamente ignorate.
La sfida della Grande Tempesta per l’Europa
Parliamo di modi di pensare, vivere e gestire gli affari pubblici che hanno enormemente condizionato le nostre società. La retorica della cessione di diritti sociali (sicurezza, salute, tutela del lavoro) in cambio della cosmesi dei diritti civili; la stessa ideologia della supremazia di questi diritti, a ogni costo, su ogni tipo di dovere e solidarietà (di classe, famigliare, di patria); l’individualismo consumista, che pone il benessere del singolo sopra ogni ragione di benessere collettivo e sociale: tutte queste tre fattispecie risultano notevolmente ridimensionate dalla necessità di una risposta comunitaria alla crisi sanitaria. Ma soprattutto a dover essere invertita sarà una governance politico-economica che ha delegato ai mercati finanziari la sovranità degli Stati e ridotto la capacità di azione in caso di crisi. Vaste programme, direbbe il generale de Gaulle: ma un biennio lungo come quello sperimentato dai Paesi europei tra il 2020 e il 2021 può lasciare in eredità importanti lezioni.
Il Covid, la sfida tecnologica, la crisi afghana, l’incertezza sui rapporti transatlantici di fronte a scenari cruciali possono e devono portare l’Unione a ragionare delle responsabilità che è necessario prendersi per giocare un ruolo da protagonista della storia: perché il Recovery Fund e la ripresa abbiano successo è dunque necessario capire i margini di manovra dell’Europa sul fronte dell’autonomia strategica in campo militare, tecnologico, diplomatico. L’economia è oggi più politica che mai, ricostruire i mercati non sarà sufficiente se non si darà una crescente soggettività a progetti che disegneranno gli equilibri del mondo per i decenni a venire. E l’ Europa ha la possibilità di mediare le nuove rivoluzioni della tecnologia, dell’economia post-pandemica, della transizione energetica con la difesa dei valori inestimabili di democrazia e uguaglianza sempre più messi sotto scacco nel mondo. L’Europa non domina il mondo né lo dominerà più. Ma questo non significa dover necessariamente accettare l’idea di essere semplicemente divenuti, una volta di più, un’arena di confronto senza che i Paesi del Vecchio Continente possano esprimere la propria voce.
Twitter @Murandrea1
NOTE
1. Si riprendono e si amplificano qui alcune considerazioni già accennate in Andrea Muratore, Cina-Usa: la battaglia dei giganti, Osservatorio Globalizzazione, 6 febbraio 2020.
2. Le cui premesse e i cui scenari di maggiore importanza sono ampiamenti descritti in Amedeo Maddaluno, L’alba di un nuovo bipolarismo, Eurasia – Rivista di studi geopolitici (edizione digitale), 4 maggio 2020.
3. È il caso della analista Gino Fontana, secondo cui “L’èlite cinese, diversamente da quella sovietica, punta ad una ascesa lenta e prudente, seguendo una propria ideologia senza innescare uno scontro ideologico come quello tra Usa e Urss. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non sembrano intenzionati ad un inasprimento delle controversie con Pechino, a prescindere da chi sarà il Presidente, nonostante gli ultimi forti attacchi mediatici. Questo è dovuto in parte al rallentamento dell’economia americana e alla situazione di emergenza generale legata al coronavirus”, cfr. Gino Fontana, Cina-Usa, la nuova Guerra Fredda?, Osservatorio Globalizzazione, 6 giugno 2020.
4. Cfr. Graham Allison, Destinati alla guerra. Possono l’America e la Cina sfuggire alla trappola di Tucidide?, Fazi, Roma 2018; Allison paragona la rivalità Usa-Cina ad un ampio spettro di contrapposizioni bilaterali della storia globale.
5. Sul tema è fondamentale Paolo Benanti, Le macchine sapienti, Marietti, Bologna 2018.
6. Tra le sfide citate nel suo saggio dal politologo Allison.