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Aiuti di stato: cosa cambia con il passaggio da Alitalia a ITA Airways
Oggi, venerdì 15 ottobre, la società Italia Trasporto Aereo (ITA) ha preso ufficialmente il volo diventando la nuova compagnia di bandiera italiana, con il nome Ita Airways reso ufficiale dall’amministratore delegato Fabio Lazzerini. Questo passaggio sancisce anche la fine della lunga e travagliata storia di Alitalia. Infatti, cedendo il ramo dell’aviazione alla neonata ITA, Alitalia, oltre che a cessare d’essere vettore nazionale – ruolo che ricopriva fin dal 1957 – ha anche interrotto tutte le sue attività di volo. È dunque la fine di quell’affare di famiglia a cui il premier Draghi aveva dichiarato di essere, come tanti italiani, molto legato. Questo nonostante il costo, estremamente elevato, che ha rappresentato per i contribuenti. Negli ultimi 45 anni lo Stato italiano ha infatti speso approssimativamente 12,6 miliardi di euro per salvare e ristrutturare Alitalia.
Le principali ragioni per cui Alitalia, diventata un peso nel bilancio dello Stato già a partire dagli anni ’80, sia stata ripetutamente salvata e mai completamente privatizzata o liquidata, sono di natura politico-sindacali. In origine, queste decisioni erano giustificate dall’importante eredità di Alitalia che, per il suo primo quarto di secolo, è stata una delle compagnie più apprezzate e popolari nel panorama del trasporto aereo commerciale. In seguito, però, i prestiti e i salvataggi straordinari si sono dimostrati sempre più difficilmente giustificabili. Non solo agli occhi dei contribuenti, ma anche a quelli degli investigatori della Commissione europea, che negli anni ha aperto molte indagini riguardo a presunte violazioni dei trattati dell’Unione per ingiustificati aiuti di stato nei confronti del vettore.
Le leggi europee sulla concorrenza
Le leggi europee che l’Italia ha infranto sono quelle della concorrenza contenute nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esse prevedono le regole da rispettare perché sia garantita un’equa concorrenza economica tra le aziende, ma anche tra gli Stati Membri, e rappresentano il principio fondante del mercato unico.
L’implementazione di un’adeguata politica della concorrenza non è però solo una priorità europea. Lo è di tutti i Paesi industrializzati già a partire dalla metà del secolo scorso, quando diverse teorie economiche hanno dimostrato che questo è il principale mezzo per garantire l’innovazione e la crescita economica. Più precisamente, questa politica consente alle imprese di competere in condizioni di parità, sottoponendole al tempo stesso a forti pressioni affinché forniscano ai consumatori i migliori prodotti al miglior prezzo possibile.
Le leggi sulla concorrenza dell’Ue mirano in particolare a ripristinare le condizioni concorrenziali nel caso in cui il comportamento abusivo di alcune imprese o di alcuni Stati membri le falsino. Le imprese potrebbero abusare di posizioni dominanti sul mercato ed escludere potenziali concorrenti. Gli Stati invece, garantendo agevolazioni fiscali o immettendo denaro pubblico nelle casse di certe imprese, potrebbero fornire vantaggi selettivi, che inficerebbero il principio di equa competizione tra imprese.
Le condanne che lo stato italiano ha subito per salvare Alitalia
È bene rendere noto che non tutti gli aiuti di stato sono vietati. L’articolo 107 del trattato prevede infatti molte deroghe come, per esempio, gli aiuti per porre rimedio a calamità naturali o a gravi perturbazioni economiche, o gli aiuti utili al conseguimento di un obiettivo di interesse comune. Se queste eccezioni sono riconosciute, devono poi essere rispettati dei criteri per fare in modo che l’aiuto di stato abbia il minor effetto distorsivo possibile nel mercato interno. A titolo esemplificativo, secondo il criterio della proporzionalità, l’aiuto deve essere limitato all’importo necessario a mantenere il beneficiario in attività per sei mesi. Secondo il criterio di adeguatezza, invece, il prestito concesso deve essere ripagato entro i sei mesi dalla sua erogazione. Infine, secondo il principio dell’aiuto «una tantum», devono essere trascorsi dieci anni dalla concessione del primo aiuto, prima che un’impresa possa beneficiare di un ulteriore prestito.
La Direzione generale della Concorrenza della Commissione europea ha indagato sulle 13 misure di salvataggio – di quasi 13 miliardi di euro in totale – concesse dallo Stato italiano nei confronti di Alitalia. Di queste, due sono risultate essere incompatibili con le leggi europee.
La prima, risalente all’aprile 2008, consisteva nel prestito ponte di 300 milioni di euro garantiti dal secondo governo Prodi. Il prestito ha violato quasi tutti i criteri necessari alla compatibilità di un aiuto di stato. Fra questi, avendo Alitalia, all’epoca dei fatti, già beneficiato di un prestito da 400 milioni nel 2004, è stato violato il principio «una tantum». Anche il criterio dell’adeguatezza era stato chiaramente violato, essendo la compagnia in una situazione finanziaria compromessa già dal 1997 ed essendo impossibilitata a ripagare il debito.
La seconda, molto più recente, risale al settembre del 2021 quando la Commissione ha ritenuto illegale il prestito di 900 milioni di euro concesso nel 2017 per garantire l’operatività di Alitalia, posta allora in amministrazione straordinaria. Tra i criteri violati dall’Italia, quello della proporzionalità e dell’adeguatezza, ma non il principio «una tantum». In effetti, proprio nel 2008, Alitalia Linee Aeree SpA, fu acquisita dalla Compagnia aerea italiana (CAI), la quale riuscì a dimostrare di non essere in continuità economica con Alitalia, dalla quale aveva acquisito solo gli attivi, tra cui il marchio e l’attività. Così facendo, l’onere di ripagare i 300 milioni di aiuto di stato illegale finì per gravare sulla parte di compagnia invenduta di Alitalia, anche chiamata “bad company”, nella quale convogliarono tutti i passivi, e dunque anche i debiti, dell’azienda.
ITA come CAI, divisione in “good e bad company”
Sfortunatamente la storia sembra ripetersi, ma in peggio. ITA ha ricevuto il via libera dalla Commissione il 10 settembre 2021 proprio per aver dimostrato di non essere il successore economico di Alitalia. Ma se CAI nel 2008 ha potuto acquisire tutti gli attivi di Alitalia Linee Aeree, ITA non è riuscita ad ottenere altrettanto. In effetti, il piano concordato con l’Ue prevede che ITA erediti il solo ramo “aviazione” e neanche in tutta la sua esaustività. ITA, infatti, decollerà con soli 52 aerei (sui 118 detenuti da Alitalia) e 2.800 dipendenti (meno della metà di quelli attuali). Le altre principali risorse del vettore, come i servizi aeroportuali, il marchio “Alitalia”, il programma di fedeltà Millemiglia, ma anche la gestione della continuità territoriale con la Sardegna, sono diventate oggetto di gare d’appalto pubbliche.
ITA quindi non dovrà ripagare i 900 milioni di euro sopra citati e neanche i possibili 400 milioni di euro, concessi dall’Italia ad Alitalia nel 2019, su cui la Commissione ha aperto una nuova indagine formale e su cui risulta essere molto alta la probabilità che venga riconosciuta un’infrazione. Ciò nonostante, il futuro non appare roseo. È infatti possibile che Ryanair e altri operatori aerei sul mercato italiano, siano molto interessati a rilevare gli asset, alcuni decisamente strategici, di Alitalia.
Impossibile infine non tratteggiare un paragone tra ITA e il rivelatosi fallimentare passaggio di proprietà tra Alitalia Linee Aeree e CAI (comunemente denominato progetto Fenice). La divisione in due compagnie diverse e l’avvenuta riconoscenza di discontinuità economica, significano che lo Stato italiano potrà permettersi di immettere nuovamente capitali pubblici nel vettore, circumnavigando ancora una volta il principio «una tantum».
Testo a cura di Margaux Truc