categoria: Vicolo corto
Conviene veramente investire in un dottorato di ricerca?
Il Dottorato di ricerca (o PhD) è il più alto livello di formazione previsto nell’ordinamento italiano. Per chi vi accede (mediante concorso pubblico per titoli ed esami), comporta un investimento di almeno tre anni, un tempo destinato ad acquisire un’autonoma capacità di ricerca scientifica, attraverso cui poter poi elaborare prodotti e processi innovativi con creatività e rigore metodologico in ambito pubblico e privato.
Si tratta di un’opzione interessante?
Ragionando in termini di prospettive occupazionali si direbbe di sì. L’Indagine 2021 di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei dottori di ricerca ad un anno dal conseguimento del titolo mostra, infatti, un tasso di occupazione pari all’88,1 per cento (in leggera flessione del 0,9 per cento rispetto all’anno precedente), ovvero un valore superiore all’equivalente dei laureati di secondo livello (che si attestano al 68,1 per cento dopo un anno e all’87,7 per cento dopo cinque).
I maggiori tassi di occupazione sono ottenuti da chi proviene dai settori afferenti ad ingegneria (90,7 per cento) e a scienze della vita (90,5 per cento), mentre le donne risultano svantaggiate con un tasso di occupazione dell’86 per cento (contro un equivalente maschile pari al 90,3 per cento).
Anche una rilevazione Istat (aggiornata però al 2018) ha analizzato la prospettiva occupazione di chi consegue un PhD ottenendo valori addirittura superiori in termini di occupabilità a due e quattro anni dal titolo (oltre il 90 per cento).
Un PhD migliora le prospettive professionali?
Sempre secondo i dati AlmaLaurea, il 30,9 per cento dei dottori di ricerca prosegue un’attività intrapresa prima dell’ottenimento del titolo (un aspetto più frequente tra i dottori in scienze umane e in scienze economiche, le cui percentuali sono pari rispettivamente al 35 per cento e al 34,6 per cento). Questa quota del campione analizzato ritiene che il dottorato comporti un miglioramento nelle competenze professionali (dichiarato dal 71,7 per cento) ma solo in maniera residuale un innalzamento del trattamento economico e delle mansioni (rispettivamente dichiarati da 7,4 per cento e dal 5,2 per cento del campione).
Il 59,6 per cento dei dottori di ricerca, invece, si inserisce nel mercato del lavoro dopo l’ottenimento del titolo (per i dottori in scienze di base la percentuale sale al 72,5 per cento), impiegando mediamente 3,6 mesi per ottenere il primo impiego (con tempi leggermente inferiori per i dottori in ingegneria e in scienze di base).
Le tipologie lavorative riscontrate tra i neo-dottori riguardano principalmente contratti a tempo determinato (28,4 per cento) o assegni di ricerca (28,5 per cento) e gli sbocchi più probabili si trovano nel settore pubblico (60,2 per cento dei casi) -soprattutto per i dottori in scienze della vita (66,1 per cento) e in scienze umane (65,5 per cento)- e nel segmento dei servizi (87,4 per cento).
Complessivamente, ad un anno dal conseguimento del dottorato, l’81,8 per cento svolge una professione intellettuale, scientifica e di alta specializzazione.
Qual è la retribuzione attesa?
La retribuzione mensile netta dei dottori di ricerca occupati a tempo pieno quantificata da AlmaLaurea, ad un anno dal conseguimento del titolo di studio, è mediamente pari a 1.728 euro, un valore nettamente più elevato rispetto a quanto osservato tra i laureati di secondo livello sia ad un anno (1.364 euro) sia a cinque anni (1.556 euro).
In generale, ottiene retribuzioni superiori chi ha intrapreso l’attività lavorativa prima del conseguimento del PhD (1.924 euro contro 1.669 euro mediamente percepiti da chi entra nel mercato del lavoro da dottore di ricerca) e chi si è formato in scienze della vita o ingegneria (che in media percepisce rispettivamente 1.902 euro e 1.796 euro). Anche chi si trasferisce per lavoro all’estero ha una prospettiva retributiva maggiore (2.400 euro) rispetto ai dottori di ricerca che esercitano la propria professione in Italia.
Il gender pay gap (su Econopoly ne abbiamo parlato qui) si riscontra però anche in questo ambito. Le tipologie contrattuali non standard riguardano infatti prioritariamente le donne (22,9 per cento contro un equivalente maschile pari al 17,4 per cento) e, ad un anno dalla conclusione del dottorato, gli uomini percepiscono una retribuzione del 13,5 per cento più elevata rispetto alle donne (rispettivamente 1.838 euro e 1.619 euro) in tutte le aree disciplinari, ma con valori massimi riscontrati nel settore di ingegneria (24,9 per cento) e per motivi sostanzialmente imputati alla diffusione del part-time (che coinvolge il 9,8 per cento delle donne e il 5,9 per cento degli uomini).
Un dottorato sembra insomma costituire un vantaggio occupazionale e una tutela contro la disoccupazione, oltre a concorrere ad una generale soddisfazione lavorativa (pari a 8 in media, su una scala da 1 a 10). In più, per il 69,8 per cento dei dottori occupati intervistati da AlmaLaurea, risulta necessario per svolgere la professione sia come titolo formale sia per le competenze apprese durante il corso di studio (sui risultati ottenuti dai ricercatori italiani, l’analisi di Samuel Carrara pubblicata su Econopoly).
Vi sono però anche alcuni rovesci di medaglia
L’ultima Indagine di ADI ad esempio allerta sulla forte precarietà, l’assenza di misure di conciliazione vita lavoro (su Econopoly ne abbiamo parlato qui) e anche sul forte tasso di espulsione dal mondo accademico in Italia.
Nel 27 per cento dei casi (33 per cento nelle aree matematiche, storiche e giuridiche), infatti, alla scadenza dell’assegno o del dottorato (e prima dell’inizio del successivo) segue un periodo di disoccupazione, che nel 55 per cento dei casi esorbita i sei mesi. Inoltre, il 53 per cento degli assegnisti dichiara di lavorare più di 40 ore settimanali a cui, nel 77 per cento dei casi, si aggiunge attività di docenza anche a titolo gratuito. Per questi motivi, oltre alle scarse misure di welfare familiare previste, il 67 per cento dei rispondenti ha sospeso i propri progetti di genitorialità. In più, ancora secondo le stime ADI, solo il 6,3 per cento degli assegnisti ha la possibilità di continuare la propria carriera come ricercatore.
Oltre a questi aspetti sembra complessivamente ardua anche la frequenza di un corso di dottorato, perché i posti disponibili sono in calo. In una precedente indagine (del 2019) ancora l’ADI ha registrato infatti una flessione nei numeri dei posti banditi pari a -3,5 per cento, oltre ad una percentuale pari al 26,9 per cento di dottorandi cui non è attribuita alcuna borsa per la ricerca.
Se questo è il panorama italiano rispetto alla prospettiva di seguire (o arrivare a conseguire) un PhD, le rilevazioni internazionali sul tema evidenziano ugualmente alcuni limiti (ma anche alcune direzioni utili), ne parleremo in un prossimo post, intanto leggi anche: Quanto, dove e come lavorano i nuovi dottori di ricerca.
LEGGI ANCHE: Dottorati in crisi: -30% in 10 anni. Dal Pnrr 1,5 miliardi per il rilancio (dal Sole 24 Ore)
LEGGI ANCHE: Un paese che non valorizza lauree e dottorati (dal Sole 24 Ore)
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Riferimenti bibliografici
AlmaLaurea, 2021, VI Indagine – Condizione occupazionale dei Dottori di ricerca
Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, 2020, IX Indagine sull’Assegno di ricerca
Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, 2019, VIII Indagine su Dottorato e Post-doc
Istat, 2018, Inserimento professionale dei Dottori di ricerca