Dare lavoro: una proposta complementare al Reddito di cittadinanza

scritto da il 20 Settembre 2021

Post di Alessandro Guerriero, laureato in Economia Politica a Roma Tre e collaboratore di Kritica Economica.

Il Reddito di cittadinanza è la misura di politica economica più discussa negli ultimi mesi. Il lettore ricorderà che il Reddito di cittadinanza fu introdotto nel 2018 dal governo gialloverde, nato dall’alleanza tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega. Come si è potuto osservare al Meeting di Rimini in agosto, solo il M5S continua a difendere la sua misura bandiera, mentre Letta, segretario del PD, ha deciso di assumere una posizione neutrale. La maggioranza dei restanti leader politici ne chiede invece l’abolizione.

Sono passati quasi tre anni ed alcune riflessioni possono essere fatte, anche guardando i dati riguardanti questo strumento economico. Sul lato delle politiche attive del lavoro, il RdC non ha funzionato. Secondo i dati dell’ANPAL del 2020 solo l’1,7% dei beneficiari e quindi il 4,3% dei percettori effettivamente inseribili in un percorso lavorativo ha ricevuto ed accettato un’offerta di lavoro.

Questo risultato però era prevedibile anche nel 2018. Ogni percettore abilitato a lavorare è stato indirizzato dai centri per l’impiego e dai navigator per cercare un’occupazione, ma quasi nessuno l’ha trovata. Questo è successo proprio perché c’era, e tutt’ora c’è, carenza di domanda di lavoro. Infatti, secondo i dati ISTAT del primo trimestre 2021, per ogni posto di lavoro vacante esistono circa dieci disoccupati.

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Se le imprese non cercano lavoratori, allora i percettori del Reddito di cittadinanza rimarranno disoccupati, anche dopo aver frequentato corsi di formazione per rientrare all’interno del mondo del lavoro.

I beneficiari del Rdc, accusati di essere pagati per non fare nulla, non hanno però responsabilità, visto che il problema è la scarsità di domanda di lavoro da parte del settore privato. Alcuni politici hanno proposto di far intraprendere dei lavori socialmente utili ai percettori, come Carlo Calenda a luglio scorso. In molti, dai politici agli imprenditori, chiedono a chi riceve il reddito di “alzarsi dal divano” ed andare a lavorare.

Il punto è però che il settore privato in questo momento (e negli scorsi anni) non è capace di assorbire la disoccupazione. È arrivato perciò il momento dell’intervento statale. Una soluzione per diminuire la disoccupazione e contestualmente correggere le storture del reddito di cittadinanza è l’“employer of last resort” (ELR), ovvero il datore di lavoro di ultima istanza. Una delle prime formulazioni è stata quella dell’economista Minsky, che può essere ritrovata nel libro dal titolo evocativo “Combattere la povertà: lavoro non assistenza”.

 

Il datore di lavoro di ultima istanza (ELR)

Minsky evidenziò delle criticità nell’Economic Opportunity Act del 1964, ovvero lo strumento di “lotta alla povertà” del Presidente Americano Johnson. Esso prevedeva corsi di formazione professionale per poter inserire i disoccupati nel mondo del lavoro privato, con l’aggiunta di politiche economiche espansive.

Secondo Minsky questa non era la soluzione adatta: egli non credeva nell’approccio dal lato dell’offerta nella lotta alla povertà, e non pensava fossero sufficienti delle misure di stimolo alla domanda aggregata.

Il Reddito di cittadinanza nei fatti funziona proprio come una misura di incentivo ai consumi e quindi alla domanda aggregata, oltre a prevedere corsi di formazione per ritrovare lavoro. Tuttavia, come nel 1964, anche nel 2021 questo approccio non è sufficiente. Per combattere la povertà e per arrivare alla piena occupazione servono altri strumenti economici, come il datore di lavoro di ultima istanza, ovvero la creazione diretta di lavoro da parte dello Stato: il governo offre un’occupazione a tutte le persone che sono disponibili a lavorare ad un salario prefissato.

Lo Stato dovrebbe decidere come impiegare queste persone. Wray (2018)[1] ha diviso le possibili occupazioni in tre macroaree, ovvero: cura dell’ambiente, cura delle comunità e cura delle persone.

Rispetto alla cura dell’ambiente si possono fare vari esempi: la cura dei parchi e delle spiagge, la manutenzione dei giardini pubblici, ecc.

Esempi per la cura della comunità possono essere la manutenzione delle strade, la pulizia delle strade e la sicurezza urbana.

Per la cura delle persone invece si può far riferimento all’accompagnamento degli anziani e ai doposcuola per i bambini.

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Le conseguenze dell’ELR

L’estensione dell’ELR avrebbe delle conseguenze, oltre alla drastica riduzione della disoccupazione e della povertà: la prima sarebbe quella di aumentare in generale il benessere di tutta la popolazione, che potrebbe godere di maggiori servizi utili.

La seconda è quella di avere un aumento della domanda aggregata, spinta principalmente dall’aumento dei consumi delle persone disoccupate e povere, cioè di coloro che hanno la propensione al consumo più alta della popolazione. Proprio per questo motivo, le aziende beneficerebbero di quest’aumento della domanda, espandendo l’offerta di conseguenza (come scriveva Keynes nel terzo capitolo della “Teoria Generale”). Incrementare l’offerta significa assumere nuovi lavoratori, che verrebbero selezionati anche tra coloro che sono occupati tramite l’ELR. Da qui si intuisce che questo strumento economico è come una fisarmonica: in una fase espansiva gli occupati dell’ELR diminuirebbero e aumenterebbero quelli del settore privato, mentre in fase recessiva avverrebbe l’esatto contrario. Più precisamente sarebbe un importante stabilizzatore economico.

Un terzo effetto indiretto sarebbe quello di creare un salario minimo universale. Infatti, se si decidesse di occupare tutte le persone facenti parte del programma di lavoro ad un certo stipendio, per esempio pari a 8 euro come proposto in Italia, allora nessun lavoratore accetterebbe un salario minore. Minsky nel 1960 evidenziava che l’effetto dell’ELR sarebbe stato quello di un aumento dei salari più bassi, maggiore dell’aumento dei salari più alti: in poche parole ci sarebbe anche un effetto redistributivo. Lo stesso risultato venne poi confermato da vari studi che analizzarono l’introduzione del salario minimo universale.

Un ulteriore effetto sarebbe quello di diminuire la spesa per il contrasto alla povertà, come quella per il reddito di cittadinanza. A quel punto sarebbe giusto tornare ad uno strumento di solo aiuto alle persone più deboli che non sono in grado di lavorare. Con l’estensione dell’ELR però, non dovrebbero essere eliminati altri ammortizzatori sociali come la NASPI o la cassa integrazione, che invece potrebbero essere rimodellati.

È utile ricordare inoltre che l’obiettivo dell’ELR non è assolutamente fare concorrenza alle imprese private né tantomeno sostituire le assunzioni nella pubblica amministrazione. Infatti, se al posto di assumere nuovi dipendenti pubblici fossero impiegati i lavoratori dell’ELR, l’effetto sarebbe solo un taglio agli stipendi. Proprio per questo c’è ancora bisogno di assunzioni all’interno della Pubblica Amministrazione per renderla più efficiente, con un compenso superiore al salario minimo dell’ELR.

In aggiunta, sarebbe necessaria una politica pubblica industriale per l’Italia, non solo per la crescita economica, ma anche perché creerebbe dei lavori con un valore aggiunto molto più alto dell’ELR e darebbe occupazione a disoccupati con una più alta formazione.

In conclusione, bisognerebbe rivedere delle idee del passato e riproporle nel presente, con l’obiettivo di arrivare alla piena occupazione e alla fine della povertà in Italia, ovvero i due problemi più importanti dell’economia del nostro Paese. Il Reddito di cittadinanza è servito “solo” come strumento di contrasto alla povertà, ma per “abolirla” davvero è necessario un datore di lavoro di ultima istanza. Proprio come diceva Minsky.

 

Riferimenti

[1] Wray et all (2018), Public service employment: a path to full employment, levy institute.