categoria: Sistema solare
La ricerca scientifica è il fulcro della crescita. Ma l’Italia non lo sa
L’autore di questo post è Antonino Iero, oggi in pensione, già responsabile del Centro Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di UnipolSai–
Innumerevoli graduatorie tra le nazioni vengono stilate periodicamente. Una delle più utilizzate è quella relativa al prodotto interno lordo annuo per abitante. Esso è un indicatore della ricchezza prodotta in media da una persona in un determinato contesto economico. In qualche modo, approssima il concetto di reddito medio ed è usato per confrontare il benessere dei vari Paesi. Pertanto, è un parametro che aiuta a spiegare diversi fenomeni, dalla mortalità infantile fino alla speranza di vita dei cittadini. Naturalmente, occorre essere consapevoli dei limiti insiti in questo indicatore: per esempio, la concentrazione dei redditi che, se eccessivamente alta, rischia di rendere il PIL pro capite una sorta di media dei polli di trilussiana memoria; o il fatto che non tutto l’ambito delle misure del benessere della popolazione è direttamente legato alla crescita del PIL. Fatta questa precisazione, la misura del PIL pro capite, specialmente se usato tra Paesi non troppo dissimili, aiuta a comprendere molte delle differenze tra loro intercorrenti.
Qui sopra è rappresentata la situazione al 2019 (1), prima che la pandemia da COVID-19 scompaginasse le economie del pianeta. Tra i diciassette Paesi europei considerati, l’Italia si trova alla dodicesima posizione, un risultato non proprio esaltante. A maggior ragione se si considera che, nel tempo, il nostro Paese non è riuscito a mantenere il passo con la maggiore economia continentale, la Germania. Lo si vede bene nel grafico che segue, dove il PIL pro capite dei tre Paesi rappresentati è espresso in percentuale sul valore del PIL pro capite tedesco (2).
Dopo il massimo, toccato nel 2005, quando il PIL pro capite italiano era oltre il 91% di quello tedesco, nel 2019 tale valore si è ridotto a poco più del 72%. Le motivazioni dietro tale modesta prestazione del nostro Paese sono numerose. Molto è stato scritto per spiegare l’incapacità italiana di mantenere il ritmo di crescita della Germania e, più in generale, della maggior parte delle altre nazioni europee. Si noti, ad esempio, la convergenza in atto tra il PIL pro capite di Italia e Spagna. Qui intendo soffermarmi su un aspetto che influisce sulla competitività complessiva di lungo termine di un sistema economico. Mi riferisco alla spesa per ricerca e sviluppo (R&D nell’acronimo inglese) (3).
Per ragionare su questa voce (che rappresenta, a tutti gli effetti, un investimento) occorre essere consapevoli che gli effetti della spesa in ricerca e sviluppo si manifestano nel tempo, perciò è necessario valutarla su orizzonti temporali ampi. Per tale motivo ho ritenuto opportuno considerare una media quinquennale della spesa in R&D. In particolare, mi sono concentrato sugli ultimi anni per cui sono disponibili i dati Eurostat, ossia il periodo 2015 – 2019 4). Per effettuare un confronto tra i diciassette sistemi economici considerati, ho esaminato la spesa in R&D per abitante. Il grafico seguente riporta la classifica dei Paesi ordinati in funzione del valore di tale parametro.
Come si vede, l’Italia occupa la dodicesima posizione (5). Curiosamente, la stessa in cui si colloca nella classifica del PIL pro capite vista in precedenza. Che non si tratti di un caso lo dimostra il grafico che segue, dove si vede bene come tra spesa pro capite in R&D e PIL medio per abitante (6) intercorra una stretta relazione.
Questi due parametri hanno un coefficiente di correlazione lineare pari al 71%. Si noti come la disposizione dei punti lasci intravedere una relazione esponenziale: prendendo in considerazione tale legame si ottiene un valore di R2 che si attesta all’82% (7). Insomma, appare difficile negare l’esistenza di uno stretto collegamento tra l’ammontare della spesa per R&D e il livello del prodotto interno lordo. A riprova di questa considerazione, c’è il fatto che la classifica dei Paesi in funzione del numero di richieste di brevetti (8)in rapporto alla popolazione (uno dei risultati in cui si concretizzano gli effetti dell’attività di ricerca e sviluppo) ricalca, con pochi scostamenti, quella della spesa per R&D pro capite e vede l’Italia sempre in dodicesima posizione.
Non va poi tralasciato il fatto che, con tutta probabilità, la connessione di una più elevata spesa per ricerca e sviluppo non si limita a quella con una maggior crescita della ricchezza prodotta dal sistema economico. Infatti, le nazioni con più alta incidenza di spesa R&D, come si vede, sono quelle scandinave che notoriamente si caratterizzano anche per un capitale umano e sociale molto elevato.
Eurostat rileva la spesa per ricerca e sviluppo effettuata da quattro soggetti: il sistema delle imprese, il settore pubblico, il settore dell’alta formazione (9) e il settore privato non profit. Passiamo brevemente in rassegna questa articolazione della spesa in R&D, limitando il confronto alle solite quattro principali economie dell’area dell’euro. Il risultato è esposto sotto (10).
Non sorprende trovare la Germania al primo posto in tutti i tre settori principali, dove la Francia si colloca in seconda posizione. L’Italia occupa il terzo posto nel settore delle imprese e, sia pure di poco, anche nel settore dell’alta formazione, ma risulta addirittura inferiore alla Spagna nella spesa pro capite in R&D del comparto pubblico. Può essere utile, a questo punto, dare uno sguardo all’evoluzione temporale dei dati.
Nel caso delle imprese, non vi è dubbio che l’Italia sia sempre stata strutturalmente penalizzata dalla maggiore diffusione, rispetto a Germania e Francia, di micro imprese. Queste, stante la loro ridotta dimensione, spesso non hanno le risorse necessarie per affrontare progetti di ricerca che richiedono investimenti cospicui con ritorni economici aleatori e, nella maggior parte dei casi, di lungo periodo. Questo spiega, in buona parte, la distanza tra i dati italiani e quelli francesi e tedeschi. Tuttavia, l’evoluzione temporale mostra con evidenza un ulteriore allargamento della forbice tra Italia e Spagna da una parte e Germania dall’altra. Peraltro, i due Paesi mediterranei hanno perso terreno anche rispetto alla Francia.
In questo caso, troviamo la conferma del fatto che il tentativo di contenere la spesa pubblica italiana ha penalizzato proprio quei settori, come la ricerca, che avrebbero potuto offrire un futuro al Paese. Impressiona la progressione della Germania, così come la sostanziale stagnazione degli altri tre Paesi, anche se la Spagna, nel primo decennio del nuovo millennio, ha messo a segno un rilevante incremento che l’ha portata a raggiungere l’Italia.
Questo settore ha visto un incremento della spesa per abitante piuttosto generalizzato. Tuttavia, anche qui spicca la sensazionale ascesa delle spese tedesche, mentre si rileva una sostanziale stagnazione degli andamenti di Italia e Spagna a partire dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani in Europa.
Il senso complessivo appare evidente: l’economia di maggior successo in Europa, ossia la Germania, mostra una evidente tendenza ad aumentare la spesa per ricerca e sviluppo in tutti i settori. Non è irragionevole pensare che proprio tali investimenti spieghino una parte significativa dell’affermazione delle sue imprese sui mercati di tutto il mondo.
Per quanto riguarda, invece, l’Italia, da un lato sarebbe stato incongruo aspettarsi un balzo di spesa in R&D da parte delle imprese. Infatti, affinché ciò avvenisse, sarebbe necessaria una crescita generalizzata delle loro dimensioni (che, peraltro, andrebbe incentivata con specifici provvedimenti). Dall’altro, pensando alla componente pubblica della spesa per ricerca, si può constatare come riduzioni scriteriate della spesa dello Stato tendano a compromettere proprio quello che si vorrebbe garantire: la sostenibilità sistemica del debito pubblico, che richiederebbe una più intensa crescita economica nel medio periodo.
Infatti, è ben noto che il tentativo di contenere la spesa pubblica è stato effettuato quasi esclusivamente a scapito della componente investimenti, con una contemporanea dilatazione delle spese “a forte valenza elettorale”. Certo, le ripercussioni negative di questa scelta non si manifestano immediatamente, occorre tempo affinché si rilevi il rallentamento produttivo. Ma non bisogna illudersi, poiché gli effetti della riduzione della spesa in R&D sulla crescita economica sono sì più lenti, ma ineluttabili. Insomma, nel quadro attuale, ci si dovrebbe aspettare che lo Stato supplisca alla carente spesa per ricerca delle imprese, non che la riduca a sua volta.
Tale situazione appare tanto più grave in un momento storico in cui lo sviluppo economico è direttamente legato alla capacità innovativa delle imprese, soprattutto nel campo della tecnologia. Peraltro, non dimentichiamoci che lo sviluppo economico non è un concetto astratto: esso si traduce in solidità sociale e benessere per i cittadini (per esempio, anche in una maggiore sostenibilità della spesa sanitaria). L’indubbio scivolamento del nostro Paese verso il basso nella classifica del PIL pro capite indica chiaramente che la maggioranza degli italiani si sta impoverendo. Con tutte le negative conseguenze del caso.
Il prorompente sviluppo scientifico (si pensi ai progressi in comparti come l’intelligenza artificiale o le biotecnologie), l’avanzare dei cambiamenti climatici (che richiedono soluzioni che solo la ricerca può offrire) e il quadro di rinnovata competizione geopolitica in atto stanno ridisegnando la gerarchia tra le nazioni. L’Italia, a causa della scarsa considerazione nei confronti dell’attività di ricerca e dell’istruzione, si sta presentando del tutto impreparata a questo appuntamento che contribuirà a definire gli equilibri internazionali del futuro. Sarebbe invece opportuno essere consapevoli dell’urgenza di porre rimedio a questa situazione, finalizzando gli sforzi e le risorse per cercare di recuperare, almeno in parte, il terreno perso in questi ultimi decenni.
toni_iero@virgilio.it
NOTE
1. Dati Eurostat: Main GDP aggregates per capita [NAMA_10_PC], GDP at market prices.
2. Per semplicità di lettura, nonché per una maggior significatività del confronto, sono state considerate le quattro principali economie dell’area euro, anche per evitare le distorsioni conseguenti all’applicazione dei tassi di cambio (si pensi al Regno Unito o alla Svezia). Mie elaborazioni su dati Eurostat espressi in valori correnti.
3. Research and Development.
4. Dati Eurostat: GERD by sector of performance [RD_E_GERDTOT].
5. La classifica dell’incidenza della spesa per R&D su PIL vede l’Italia in undicesima posizione.
6. Mie elaborazioni su dati Eurostat. Le posizioni eccentriche di Irlanda e Norvegia sono legate, nel primo caso, alla favorevole legislazione fiscale che incentiva la presenza di grandi imprese internazionali nell’isola; nel secondo caso, al fatto che quel Paese scandinavo è uno dei maggiori produttori mondiali di petrolio.
7. Il coefficiente di determinazione (R2) misura la frazione della varianza della variabile dipendente espressa dalla regressione.
8. Dati Eurostat: Patent applications to the EPO by priority year by international patent classification (IPC) sections and classes [PAT_EP_NIPC].
9. La definizione di higher education sector include le università, i college di tecnologia e altri istituti di istruzione post-secondaria, qualunque sia la loro fonte di finanziamento o status giuridico. Per ulteriori approfondimenti si veda “Frascati Manual2015”.
10. Dati Eurostat: GERD by sector of performance [RD_E_GERDTOT].