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Giustizia, il governo dei migliori e la tentazione del colpo di spugna
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Prima delle vacanze mi sono imbattuto in un amico collega che non vedevo da tempo e ci siamo raccontati, reciprocamente, le storie processuali insensate che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Questo rituale fra colleghi è molto frequente e ha da tempo superato i toni dell’amarezza, oscillando fra quelli della rassegnazione e quelli della facezia. Questa volta, però, una sua battuta folgorante quanto icastica ha provocato in me il riflusso di un’amarezza che non provavo da tempo: “Da noi i processi convengono se hai torto o sei colpevole”, mi ha detto.
Purtroppo è vero, e dipende da almeno tre ragioni.
La prima, è che siamo costretti a districarci in guazzabugli di regole contorte e incoerenti. Ciò determina quella situazione da “stato criminogeno” già descritta da Giulio Tremonti negli anni novanta. Sicché chi intende rispettarle resta comunque esposto al rischio di violarle, da cui anche gli “scioperi della firma” che si riscontrano in molti ambiti della pubblica amministrazione, e non solo. Chi invece ha un’indole più “sportiva” si sente giustificato a violarle, specialmente quando le regole sono confuse e infelici. Tant’è che un amico pescatore mi ha recentemente mostrato con orgoglio le foto di ricciole, dentici e aragoste che aveva pescato in un’area marina protetta, lamentandosi dell’assurdità dei suoi divieti. A prescindere dai suoi argomenti, che potranno pure essere discutibili, non ho potuto fare a meno di provare un’istintiva simpatia per chi, in fondo, si è limitato a fare ciò che gli aveva insegnato suo padre, che a sua volta lo aveva appreso dal nonno, mentre un funzionario “dimentico del mondo e dal mondo dimenticato” ha deciso che non va più bene. Dunque la simpatia che provo, come credo altri, verso l’amico “fuorilegge” è parte del problema.
La seconda è che la lunghezza dei processi penalizza i creditori e gli innocenti, mentre favorisce i debitori e i colpevoli. A prescindere dalla lunghezza dei processi, può pure capitare che un giudice ritenga che certi impegni contrattuali siano troppo “ingiusti” per essere applicati come sono scritti, anche se assunti da contraenti professionali in situazioni non anomale. Oppure che un “potente” sia travolto da un’indagine ispirata da un senso di “giustizia sociale” più che dal suo comportamento. Così al problema dell’attesa si aggiunge quello dell’incertezza.
La terza è che l’ingolfamento della giustizia – che dipende soprattutto dalla lunghezza dei processi e dall’incertezza del diritto – porta a una situazione così ingarbugliata che alla fine si può risolvere solo con rimedi di ultima istanza, per non dire “disperati”. Così l’evasione fiscale finisce in condono, l’affollamento carcerario in indulto, l’eccessiva lunghezza dei processi penali in prescrizione, e così via. Tuttavia è noto che nel lungo termine questo genere di rimedi tende ad aggravare, più che eliminare, i problemi. Lo si dice da anni, ma tant’è: finché saremo costretti a salvare i “buoni” con rimedi di ultima istanza, i “cattivi” tenderanno ad approfittarsene, e i “buoni” si sentiranno pure un po’ più fessi.
Servirebbe dunque una soluzione strutturale, che ponga fine a questo circolo vizioso. La si dovrebbe trovare nelle due riforme “orizzontali” del PNRR, cioè quella della pubblica amministrazione e quella della giustizia. Di quest’ultima ho già scritto che le linee guida indicate dal PNRR, pur condivisibili, hanno il limite di focalizzarsi sulla riduzione della durata dei processi e non sulla certezza del diritto, come se la durata dei processi non dipendesse (anche) da quest’ultima. La recente riforma del processo penale approvata dalla Camera il 3 agosto scorso – che, si ricorda, non è ancora stata approvata dal Senato – è in questo solco.
Come è noto le polemiche sulla riforma erano focalizzate sull’improcedibilità dei giudizi, mentre non si è parlato (molto) delle altre disposizioni, che delineano un quadro comunque improntato alla riduzione dei tempi. Molte di esse, fra cui quelle sulla digitalizzazione, sui collegamenti a distanza, sui riti speciali e sullo “sfoltimento” dei processi, sono di buon senso.
Altre, come quelle sulla retrodatazione dell’iscrizione nel registro della notizia di reato, dovrebbero scoraggiare certi abusi della prassi, ben noti agli operatori. Altre ancora, come quelle sull’estensione delle pene sostitutive e sull’esclusione della punibilità per la tenuità del fatto, si fondano su un’idea di pena proporzionale alla gravità dei reati, che è ovviamente condivisibile, sebbene una riforma più organica avrebbe forse potuto estendere la depenalizzazione degli illeciti la cui natura o gravità appare più idonea ad altre forme di sanzione.
A dire il vero alcune delle proposte per la riduzione dei tempi e lo sfoltimento dei processi indicate dalla riforma erano già state indicate dal governo precedente. Fra quelle nuove compaiono disposizioni volte a rafforzare le garanzie per gli imputati, a prevenire gli abusi e mitigare le pene. Ma fra tutte emerge la “famigerata” improcedibilità, che molte anime travolse e infiniti lutti addusse. La sua funzione è quella di prevenire l’eccessiva durata dei procedimenti d’impugnazione. Ma è pur sempre un rimedio di ultima istanza, a cui bisognerebbe ricorrere il meno possibile. Né si possono ignorare le incongruenze evidenziate dal Consiglio Superiore della Magistratura, che ha giustamente osservato come l’improcedibilità rischi di tradursi in una rinuncia all’azione penale per reati non estinti e in una sperequazione nel trattamento degli autori dei reati.
Ce ne faremo una ragione, come sempre, ma dispiace che anche il “governo dei migliori” non riesca a resistere all’attrazione fatale del colpo di spugna, all’insegna delle nostre migliori tradizioni. D’altronde questo genere di rimedi è praticamente sconosciuto ai nostri colleghi d’oltralpe, che ci ascoltano fra il divertito e l’attonito ogni volta che glieli spieghiamo. Non resta che consolarci con la solita Grecia, che oltre a essere fra i pochi paesi cresciuti meno di noi negli ultimi anni, è pure l’unico ad avere una prescrizione come la nostra.
Non mi consta, tuttavia, che l’improcedibilità delle impugnazioni esista in altri ordinamenti, sebbene il filtro della loro ammissibilità sia spesso molto più rigoroso. Può darsi che induca i giudici a un maggiore senso di responsabilità sulla loro durata, ma è difficile che possa funzionare in assenza di conseguenze per chi, dell’improcedibiltà, se ne frega.
Da quest’assenza traspare poi il tabù di affrontare il problema di una responsabilità dei giudici che non si limiti alla responsabilità civile – rispetto alla quale gli argomenti contrari hanno pure una ragione d’essere – ma si estenda alla responsabilità del servizio che svolgono. Quale organizzazione può funzionare se chi è inadatto a svolgere la sua funzione è sostanzialmente inamovibile e procede in carriera per anzianità? Se fosse un’impresa verrebbe da rispondere nessuna.
Ma nella pubblica amministrazione, e soprattutto nella giustizia, questa è la norma.
Non ci è dato di sapere se questo problema, come quello dell’incertezza del diritto, sarà affrontato nella riforma complessiva della giustizia, di cui il processo penale è solo la prima tappa. In teoria dovrebbe occuparsene la riforma dell’ordinamento giudiziario, che è una delle cinque riforme indicate dal PNRR. Speriamo di sì, altrimenti avremo un’altra anatra zoppa che rischierà di inciampare in una delle tante trappole del nostro sistema.