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Il familismo amorale all’italiana e i suoi effetti su Pil, lavoro, pensioni
Post di Luca Delvecchio, laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Luigi Bocconi di Milano, ha frequentato il corso di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con l’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia (IRER) –
Non è la canonica definizione di Banfield, ma il ritratto divertito e tagliente, offerto da Peter Nichols a restituire con efficacia quello che in buona parte della letteratura antropologica e storica è ritenuto uno dei caratteri più prominenti e longevi della società italiana: il familismo.
La famiglia, scrive il giornalista britannico che fu per trent’anni corrispondente del Times nel nostro paese, è «il più celebre capolavoro della società italiana attraverso i secoli, il baluardo, l’unità naturale, il dispensatore di tutto ciò che lo stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore e il rimuneratore». Nichols allude evidentemente alla straordinaria compattezza dei rapporti familiari e alla centralità che, nel nostro Paese, essi sembrano vantare rispetto agli interessi della società civile e dello Stato.
Ma prima di addentrarci nel reportage antropologico, occorre chiarire bene due punti. Il primo: con «familismo» non si allude al puro e semplice amore della famiglia o alla forza e alla inscindibilità dei suoi legami interni, ma a una esasperata forma di privatismo e al prevalere degli interessi familiari rispetto ai bisogni di gruppi più estesi, non costituiti da vincoli di sangue, ma che contribuiscono in modo essenziale al tessuto della socialità umana. Familismo significa, in sostanza, «unità familiari fortemente coese, una società civile relativamente debole e una sfiducia nello Stato centrale profondamente radicata» (Paul Ginsborg).
Il secondo: quello che proporrò è un «idealtipo», cioè un’astrazione molto difficile da rintracciare empiricamente nella sua purezza – arduo incontrare per la via un familista genuino – ma utile come criterio di comparazione, per giudicare la distanza dall’ideale di singoli casi concreti. Il «familista» è in questo senso simile al «capitalista» o al «borghese». Quanto di fatto siano «familisti» gli italiani lo si potrà giudicare dalle risultanze empiriche che sostengono gli studi e le tesi di importanti scienziati sociali. Com’è immaginabile, l’argomento è ponderoso e controverso, perciò tenterò di portarne alla luce solo i tratti di fondo e alcune rilevanti conseguenze, affidandomi alla ‘oggettività’ delle misurazioni di sociologi ed economisti, dato che, come scrive Ginsborg, se la versione italiana del familismo non è certo costante in tutta la penisola, essa «non è neanche un miraggio».
Il termine «familismo» compare ufficialmente sul proscenio delle scienze sociali nella seconda metà degli anni ’50 a opera del politologo statunitense Edward C. Banfield, che lo qualificò come «amorale». Egli alludeva al comportamento di chi agisce massimizzando i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare, nella convinzione che tutti gli altri facciano lo stesso. Il familista è «amorale», perché indifferente alla moralità e ai suoi criteri, cioè ai principi del bene e del male, in contesti lontani dalla famiglia; egli non scade necessariamente in comportamenti immorali o illegali; piuttosto, tende a privilegiare l’utile proprio e dei consanguinei più prossimi, senza occuparsi della bontà morale delle proprie azioni.
Isolando i costitutivi dell’atteggiamento familistico, cioè (1) l’attitudine a difendere esclusivamente gli interessi di breve termine della famiglia ristretta, e (2) la credenza che tutti si comportino allo stesso modo, non è difficile cogliere quelle che Banfield riteneva essere le conseguenze, per così dire, naturali del familismo. «In una società di familisti amorali nessuno perseguirà l’interesse del gruppo o della comunità, a meno che ciò non torni a suo personale vantaggio», egli scrive. In effetti, laddove la famiglia è al vertice della gerarchia di valori, la città e la politica assumono significato solo in quanto utili all’interesse particolare della cerchia dei consaguinei. Nei Libri della Famiglia, un trattato in forma dialogica sulla «masserizia», l’arte di condurre la famiglia mercantile, Leon Battista Alberti ripete il medesimo concetto, anticipando Banfield di circa cinque secoli: «[…] per reggere la famiglia si cerca la roba; e per conservare la famiglia e la roba si vogliono amici, co’ quali ti consigli, i quali t’aiutino sostenere e fuggire avverse fortune; e per avere con gli amici frutto della roba, della famiglia e della amicizia, si conviene ottenere qualche onestanza e onorata autorità».
Ma, a dire di Banfield, c’è anche altro. L’utilitarismo familistico coincide con l’assenza di comportamenti altruistici e collaborativi e, in buona sostanza, con uno scarso incentivo a prestare le proprie energie in organizzazioni di ogni specie, dato che agire in forma organizzata significa nutrire sentimenti di lealtà e fiducia reciproca, essere disposti a sostenere sacrifici per il bene del gruppo e possedere, in piccolo o in grande, uno spirito di vocazione e di missione. Ne risulta che in una società di familisti amorali «coloro che ricoprono cariche pubbliche, non identificandosi in alcun modo con gli scopi dell’organizzazione a cui appartengono, si daranno da fare quel tanto che basti per conservare il posto che occupano […] o per ottenere promozioni».
E che dire, poi, dell’attittudine a rispettare le regole? Dove il familismo domina, scrive Banfield, «si agirà in violazione della legge ogni qual volta non vi sia ragione di temere una punizione»; il pubblico ufficiale, d’altra parte, «accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie, ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà». Il familista idealtipico, inoltre, vede se stesso in chiunque gli capiti a tiro, ed è convinto, perciò, che chi riveste cariche pubbliche non abbia interesse a tenere condotte moralmente onorevoli: «in una società di familisti amorali esiste la diffusa convinzione che, qualunque sia il gruppo al potere, esso è corrotto e agisce nel proprio interesse».
C’è, di nuovo, una corrispondenza che colpisce con il dialogo familiare dell’Alberti tra Giannozzo e Lionardo: «Lionardo. Chiamate voi forse, come questi nostri cittadini, onore trovarsi negli uffici e nello stato? Giannozzo. Niuna cosa manco, Lionardo mio, niuna cosa manco, figliuoli miei. Niuna cosa a me pare meno degna reputarsela ad onore che trovarsi in questi stati (impegnati nello stato)». La vita politica è ritenuta, come si vede, una melma di soverchierie, servilismi e immoralità. Sempre l’Alberti per bocca di Giannozzo: «Che vedi tu da questi i quali si travagliano agli stati (che si occupano della cosa pubblica) essere differenza a pubblici servi?»; e ancora: «Eccoti sedere in ufficio. Che n’hai tu d’utile se none uno solo: potere rubare e sforzare (usare violenza) con qualche licenza?».
Ma c’è una simmetria ancora più esatta tra le generalizzazioni di Banfield e quanto l’Alberti metteva in bocca ai suoi personaggi. Da un alto, infatti, il politologo di Harvard, che ammonisce: «In una società di familisti amorali soltanto i funzionari si occupano della cosa pubblica, perché essi soltanto vengono pagati per questo. Che un privato cittadino si interessi seriamente a un problema pubblico è considerato anormale e perfino sconveniente»; dall’altra l’umanista fiorentino, che fa dire sconsolatamente al suo Giannozzo,: «E chiamate onore […] servire e pascere agli uomini servili (gli uomini dello stato)! […] È si vuole (conviene) vivere a sé, non al comune (al servizio del bene pubblico), essere sollicito per gli amici, vero, ove tu non interlasci (trascuri) e’ fatti tuoi, e ove a te non risulti danno troppo grande».
Oltre a tutto ciò, una società familistica sconterà inevitabilmente la generale assenza di controllo sull’operato dei pubblici ufficiali, se non da parte dei loro superiori, ritenuta cosa estranea o persino contraria agli interessi personali del singolo cittadino; la mancanza di una corrispondenza tra principi politici astrattamente dichiarati (l’ideologia) e comportamento effettivo nei rapporti di vita quotidiani; la scarsa iniziativa personale e la conseguente penuria di buoni leader, mai sostenuti dalla solida fiducia dei loro gregari; la tendenza a servirsi del voto (attivo e passivo) al solo fine di ottenere il maggior vantaggio di breve termine; la volatilità del consenso elettorale, legato a logiche strumentali e di clientela; infine, l’universale, inestirpabile disposizione a sostituire l’utile privato all’interesse pubblico.
Privatismo e scarsa coscienza civica delineano, dunque, alla perfezione l’ethos familistico. Ma ora la questione di cui occuparci è se quello del familista rappresenti davvero uno dei tipi sociali più diffusi nel nostro Paese e che cosa, eventualmente, ciò comporti per l’efficienza del sistema economico.
Stato o Mercato? No: famiglia titolavano Andrea Ichino e il compianto Alberto Alesina in un pamphlet (L’Italia fatta in casa, Mondadori, 2010), che contiene un’analisi dell’impatto della cultura familistica su variabili
socioeconomiche fondamentali, come la consistenza del Prodotto Interno Lordo, il grado di rigidità del mercato del lavoro, la sua ricettività rispetto alla partecipazione femminile e perfino la struttura territoriale dell’offerta educativa.
Una prima osservazione non ovvia è che il Prodotto Interno Lordo non misura correttamente il grado effettivo di benessere di cui gode un italiano, per via della quota rilevante di servizi familiari sul valore complessivo della ricchezza prodotta, che, non passando per il mercato, non viene contabilizzata. Dato il grado elevato di coesione della famiglia italiana, diventa infatti più conveniente produrre entro le mura domestiche servizi di cura come la preparazione dei pasti, le faccende domestiche, l’assistenza agli anziani, ecc. Beni e servizi fatti in casa sono tuttavia, per così dire, grandi voragini contabili sui cui passano indifferenti le statistiche ufficiali: essi non entrano nel Prodotto Interno Lordo, sebbene arricchiscano di fatto chi li riceve e il loro ammontare complessivo risulti, secondo le stime, piuttosto cospicuo. In base ai dati dell’ultima indagine sull’uso del tempo da parte delle famiglie italiane, che data 2018, ISTAT stima il lavoro familiare intorno al 34% del PIL.
Ma chi lavora di più in casa? Diffcile stabilire con certezza quanto intensamente incidano gli elementi patriarchici insiti nella cultura sulla divisione del lavoro domestico, ma è un fatto, peraltro ben misurato, che in Italia siano le donne a sostenere la maggior quota di produzione familiare, in una contesa ideale per il primato europeo che le vede rivaleggiare solo con le ‘colleghe’ romene. Gli uomini italiani, di contro, sono quelli che in Europa dedicano, insieme ai greci, il minor tempo ai servizi domestici.
Non stupisce che a ciò sia correlata, in Italia, una minor partecipazione femminile al lavoro retribuito. A dicembre 2020 risultava occupato il 67, 5% degli uomini nella fascia tra i 15 e i 64 anni, e solo il 48,6% delle donne; dato che, nell’indicare uno squilibrio tanto macroscopico, rivela non solo il maggior prezzo pagato dalle donne in termini di licenziamenti durante lo shock pandemico – nello stesso periodo si stimava, infatti, che su 101.000 nuovi disoccupati in Italia, ben 99.000 fossero donne -, ma anche che la disparità d’accesso tra generi è endemica, in Italia come altrove, al mercato del lavoro. Il modello culturale del male breadwinner/ female caregiver è tutt’oggi saldamente radicato nella società italiana: gli uomini dedicano mediamente il 62,4% del tempo di lavoro complessivo ad attività retribuite, mentre le donne riservano il 75% del tempo di lavoro alle cure domestiche, ad attività di volontariato e ad aiuti informali ad altre famiglie (ISTAT).
Le conseguenze di ciò (minore accesso al lavoro retribuito, minori salari medi, duque un ammontare contributivo mediamente più modesto) si osservano, è notizia recente, anche nei trattamenti pensionistici: le donne percepiscono in media assegni di quasi 500 euro inferiori rispetto agli ex colleghi uomini.
Anche l’abbandono tardivo del nucleo familiare (in Italia si resta in famiglia fino a circa 30 anni; in Germania e Francia fino a 23) e la scarsa mobilità territoriale (circa il 45% delle coppie sposare italiane vive a meno di 1 km dai genitori) sono in gran parte addebitabili all’impostazione familistica, che incide anche sull’organizzazione del Welfare nel nostro paese. Esso è, infatti, organizzato in base alla prossimità geografica di famiglie e congiunti, e ciò implica elevati costi di migrazione: studenti, novelli disoccupati, anziani, ecc. spesso non possono contare se non sul sostegno determinante dei familiari. Questo riduce fortemente la disposizione ad andarsene da casa e, più in generale, a progettare una esistenza lontano dalle opportunità, e dai vincoli, offerti dai contesti d’origine.
Il forte legame degli italiani con la località ha conseguenze sulla distribuzione territoriale dell’offerta formativa, sul grado di mobilità sociale e su alcune caratteristiche del mercato del lavoro, come la sua rigidità.
Le sedi universitarie periferiche si sono negli ultimi anni moltiplicate, tanto che circa l’80% degli studenti è iscritto in un ateneo della propria regione (dato ISTAT). Ma quel che sembra corrispondere al massimo della democrazia educativa si risolve in realtà nel suo contrario. Se da un lato, infatti, ciascuno può frequentare l’università «sotto casa», dall’altro ciò diminuisce la concorrenza territoriale tra atenei e annacqua la qualità dell’offerta formativa in una pletora di sedi secondarie. Chi intende staccarsi dalla famiglia per proseguire gli studi a centinaia di chilometri da casa può spesso contare solo sull’appoggio della famiglia d’origine. Se questa, però, ha scarsi mezzi, la scelta dello studente è pressoché obbligata; egli si contenterà di studiare vicino a casa a prescindere dalla qualità dell’ateneo.
Ciò contribuisce, tra le altre cose, a mantenere chi è economicamente meno dotato in una posizione di svantaggio, dato che di fatto ne limita o ne impedisce l’accesso ai centri universitari più prestigiosi. Ma un welfare sub-protettivo non spiega del tutto quell’80% di giovani che, per l’intero ciclo di studi, non oltrepassano i confini della regione d’origine; il dato riflette anche i costi psicologici che molti di loro non sono disposti a sostenere per distaccarsi dalla famiglia e affrontare le asprezze, per così dire, della condizione di studente fuorisede. Studiare vicino a casa è spesso ritenuto un diritto e le istituzioni accademiche si sono evolute privilegiando i localismi anche per non contraddire questa endemica necessità di una costante vicinanza alla famiglia (su ciò si veda il già citato saggio di Ichino e Alesina).
La stanzialità riguarda anche i lavoratori italiani, e ciò aumenta, per paradosso, il potere contrattuale delle imprese nei loro confronti. Se i costi di mobilità sono elevati, infatti, – costi economici e, ancora una volta, psicologici – i lavoratori avranno una bassa propensione a spostarsi per la ricerca di una occupazione, anche se le condizioni salariali e lavorative non sono ottimali. Le imprese godranno, quindi, di un elevato potere «monopsonistico»: esse potranno, il linea di principio, offrire salari più bassi e minori garanzie, senza per questo rischiare una emorragia di forza lavoro.
Licenziarsi per cercare una occupazione altrove, dato lo scarso sostegno da parte dello Stato a chi deve ricollocarsi, comporta, poi, rischi elevati per quei maschi adulti che sono i principali percettori di reddito di molte famiglie. L’unica soluzione, in presenza di vincoli familiari che divengono un impedimento alla mobilità e di politiche del lavoro attive scarsamente efficaci, è limitare per legge il potere monopsonistico delle imprese attraverso un irrigidimento del mercato del lavoro. Per irrigidimento si intende una limitazione della flessibilità dei salari verso il basso, della libertà di licenziamento, della riorganizzazione interna della forza lavoro, e così via.
Se i costi di mobilità fossero ridotti, i lavoratori sarebbero più liberi di moversi alla ricerca dell’occupazione migliore per loro, si otterebbe così un’elevata efficienza produttiva e il più alto reddito per i singoli e la collettività. Ma se, al contrario, fattori culturali ed economici vincolano la mobilità, in un contesto in cui la famiglia è il principale erogatore di servizi sociali, il costo degli spostamenti risultano nel complesso proibitivi, e il solo modo di proteggere l’individuo è tutelare rigidamente il lavoro che assicura alle famiglie le risorse per l’assistenza dei propri membri. Il sistema americano tenta di ridurre i costi di mobilità, rimuovendo i vincoli che li producono; quello scandinavo assegna interamente allo Stato il compito di alleviare tali costi (flexicurity); il sistema italiano, invece, sostituisce al welfare le famiglie, affidando a queste ultime l’erogazione dei servizi di protezione e di cura; ne risulta è un welfare to work subprotettivo e un mercato del lavoro più rigido che altrove.
Le statistiche indicano che la vicinanza geografica ai padri corrisponde anche a una prossimità sociale tra padri e figli: negli USA avere un padre laureato aumenta di 6 volte la probabilità per un figlio di laurearsi; in Italia la laurea del padre accresce di ben 25 volte questa probabilità. In Italia, poi, il livello del reddito paterno incide in maniera preponderante sul reddito futuro dei figli; negli USA è, invece, la laurea del padre a pesare di più.
A proposito di ciò, è utile qualche considerazione sul grado di mobilità intergenerazionale nel nostro paese. Uno studio pubblicato nel 2016 ha preso in esame la capacità di contribuzione di alcune famiglie fiorentine dal 1427 al 2011, rilevando che gli alto-contribuenti di allora sono i più abbienti di oggi, e che i basso-contribuenti di allora occupano il fondo della lista della ricchezza anche oggi. Una parte dell’assetto sociale fondato sulla centralità della famiglia e delle risorse che essa può assicurare ai suoi membri in termini di sostegno economico e milieu relazionale si è, dunque, perpetuato a partire dal ‘400 lungo sei secoli di storia.
Si aggiunga a tutto ciò, la quasi-ereditarietà del posto di lavoro nell’amministrazione pubblica (ben illustrata nello studio citato qui); la continuità intergenerazionale, per così dire, di molte professioni (notai, avvocati, medici, dentisti, farmacisti, docenti universitari, idraulici, inservienti d’aeroporto, ecc.); infine, la nota tendenza delle aziende italiane a privilegiare la nomina di rampolli e consanguinei nei consigli di amministrazione anche scapito di manager più capaci – l’85% di esse corrisponde, infatti, al modello familiare, che spesso impedisce la crescita e lo sfruttamento delle economie di scala, come sottolineato da questo studio della Banca d’italia.
I Libri della Famiglia dell’Alberti datano tra il 1427 e il 1440; il «familismo amorale» di Banfield compare quasi all’alba degli anni ’60, e da allora ad oggi l’analisi empirica non ha cessato di produrre conferme.