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Di cosa parliamo, esattamente, quando parliamo di diseguaglianza?
L’ultima relazione annuale della Bis (la Banca dei regolamenti internazionali) di Basilea dedica un intero capitolo a uno dei temi più ricorrenti del nostro dibattito pubblico: la diseguaglianza. Chiunque frequenti le cronache, economiche e non solo, sa perfettamente quanto se ne parli e avrà sicuramente letto centinaia di pagine dove esperti, più o meno credibili, illustrano con dovizie di statistiche l’entità e lo sviluppo di queste disparità, sottolineandone gli effetti perniciosi sulla domanda aggregata, la stabilità finanziaria e, dulcis in fundo, su quella sociale. Una società diseguale è più instabile di una più equilibrata, fanno capire. E tanto basta ad invocare interventi redistributivi.
La conseguenza di questo ampio discorrere è che la letteratura sulla diseguaglianza ormai fa genere a parte, per quant’è copiosa. Per i più frettolosi esiste anche una vulgata che si può sintetizzare in poche righe: a partire dagli anni ’80, a causa della liberalizzazioni dei movimenti di capitale e la spinta sulla globalizzazione, con l’ingresso della Cina nella Wto nel ruolo di ciliegina sulla torta, la diseguaglianza all’interno dei paesi è aumentata, pure se è diminuita quella fra paesi. Risultato: i ricchi sono più ricchi, i poveri più poveri. E giù fischi.
A questa narrazione le banche centrali hanno contribuito non poco, producendo però pregevoli contributi scientifici. Una tendenza che è cresciuta nel tempo, come mostra la frequenza crescente dell’uso del termine diseguaglianza nei discorsi dei banchieri centrali.
Come si può osservare, la diseguaglianza inizia ad apparire sempre più di frequente a partire dagli anni Dieci del nuovo secolo. Prima, evidentemente, non era in cima ai pensieri dei banchieri centrali. Tale attivismo è una probabile conseguenza delle politiche straordinarie messe in campo dalle banche centrali per superare la crisi del 2008, che ha alimentato molti interrogativi circa gli effetti distorsivi di una politica monetaria tanto espansiva. Non a caso la Bis, nella sua ricerca recente, dedica ampio spazio agli effetti dei tassi bassi e del QE sulla diseguaglianza.
Il punto, però, è che se chiedessimo a persone diverse cosa intendono per diseguaglianza avremmo probabilmente risposte molto differenti. Il termine ormai è tanto abusato quanto frainteso. Sembra serva soltanto a smuovere emozioni, piuttosto che ragionamenti.
Ma se si vanno a leggere gli studi, possiamo individuare almeno tre definizioni statisticamente misurabili di diseguaglianza: quella dei redditi, quella della ricchezza e quella dei consumi. Il quadro si potrebbe completare se considerassimo anche la diseguaglianza delle opportunità, storicamente alla base di molte politiche (e promesse). Ma non è cosa che si possa agevolmente determinare. Buona quindi per i proclami, meno per la modellistica.
C’è un’altra cosa da ricordare. Quando parliamo di diseguaglianza dei redditi, dovremmo specificare sempre – cosa che raramente si fa – se la misuriamo prima o dopo l’imposizione fiscale e il contributo dei trasferimenti pubblici. Perché le differenze, misurate con l’indice di Gini, sono rilevanti, come si evince dal grafico (sotto) elaborato dalla Bis.
Come si vede, nel nostro paese l’indice di diseguaglianza dei redditi è persino superiore a quello degli Stati Uniti, prima degli effetti redistributivi provocati dal governo, mentre è assai inferiore dopo. Notate, inoltre, come in Italia l’indice di Gini prima dell’imposizione fiscale sia il più elevato – più è elevato maggiore è la diseguaglianza – fra le grandi economia considerate.
Una osservazione analoga si dovrebbe fare anche se guardiamo a un’altro tipo di diseguaglianza, quella della ricchezza, ossia del patrimonio. Quest’ultimo, che si compone di asset finanziari e reali – tipicamente gli immobili – è soggetto a un’imposizione fiscale, ma soprattutto è molto sensibile agli effetti della politica monetaria, pure se, secondo la Bis, gli effetti sulla diseguaglianza di queste politiche sono modesti e di breve termine.
Possiamo farcene un’idea osservando un altro grafico elaborato dalla Fed di St.Louis, che prende in considerazione gli effetti sui patrimoni della crisi Covid, a seconda della fascia di ricchezza.
Come si può osservare l’1% più ricco ha subito il calo più drastico del proprio patrimonio (-10%) nel primo trimestre del 2020, quando la crisi Covid fece crollare i mercati, per poi recuperare successivamente. Un anno dopo l’indice ha superato i 120 punti, quindi la ricchezza è cresciuta di circa il 20% rispetto al pre covid. È interessante però osservare che il maggior guadagno post-crisi lo hanno spuntato le famiglie che appartengono al 50% più povero della popolazione (+30%). Probabilmente hanno visto crescere la propria ricchezza, per lo più basata sul mattone, grazie alla ripresa dei corsi immobiliari. La diseguaglianza ha molti modi di esprimersi, anche se non tutti sono egualmente popolari.
E uno dei modi meno popolari è quello che si può osservare guardando a un’altro tipo di diseguaglianza della quale si parla molto poco, forse perché meno intuitiva: quella dei consumi. Ne accenna un bollettino di qualche mese fa della Banca centrale europea, che ha elaborato un grafico che vale la pena riportare.
“Le disuguaglianze nei consumi – scrive la Bce – sono talvolta considerate un indicatore del tenore di vita e del benessere migliore rispetto alle misure basate sul reddito o sulla ricchezza”. È bene sottolinearlo. E quanto ai nostri esiti, ciò che si osserva è che “i consumi risultano sostanzialmente meno concentrati della ricchezza netta, fattore che sembrerebbe indicare che il benessere economico è distribuito in maniera più uniforme rispetto alla ricchezza”.
Ciò significa che, ai fini pratici, la diseguaglianza nei consumi è un indicatore più realistico per misurare il livello di vita di una persona. Poco importa quanti denari abbia il mio vicino, se comunque io posso spendere quello che mi serve per vivere dignitosamente. Una riflessione che raramente fa capolino nelle analisi sulla diseguaglianza, che spesso invece puntano sugli effetti regressivi della concentrazione della ricchezza sulla domanda aggregata o sulla stabilità finanziaria, quando non si limitino a moraleggiare sulle ingiustizie distributive.
Di cosa parliamo, perciò, quando parliamo di diseguglianza? Come si può ricavare da questa breve illustrazione, le risposte non sono scientificamente univoche, mentre lo sono quanto agli esiti: qualunque sia la diseguaglianza che abbiamo in mente, che esista nella realtà o che sia un riflesso della nostra cattiva coscienza, la conclusione è che debba essere ridotta.
Da qui emerge una risposta corale: serve un maggior livello di intervento pubblico a fini redistributivi, persino superiore a quello che già lo stato svolge con la tassazione.
È in quest’area grigia che nascono proposte come quella della dote ai diciottenni tramite la solita patrimoniale. Togliere denaro per dare denaro. Raramente si pensa a come far aumentare la ricchezza, per la semplice ragione che è più facile prenderla. Robin Hood è di sicuro più popolare di Adam Smith. Ma se è così, allora dobbiamo essere consapevoli che quando ci lamentiamo della diseguaglianza stiamo dicendo che vogliamo più intervento pubblico nell’economia, credendo in fondo che sia il viatico per la felicità. Vero o falso che sia, importa poco.
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