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Più green e welfare aziendale, le donne d’impresa anticipano il futuro
Post di Azzurra Rinaldi, responsabile School of Gender Economics e corso di laurea in Economia del turismo all’università di Roma Unitelma Sapienza –
Da un anno a questa parte, il tema del lavoro femminile viene trattato quasi quotidianamente nei dibattiti, sui quotidiani e perfino (sebbene più timidamente) nell’elaborazione delle politiche di rilancio del paese (rammentiamo che nel PNRR a sostegno dell’imprenditoria femminile troviamo soltanto 400 milioni di Euro, su oltre 220 miliardi di Euro). È stato osservato più volte: la comparsa del Covid e la crisi che ne è conseguita hanno svelato il carico crescente di lavoro di cura non retribuita che grava sulle spalle delle donne italiane.
Post-Covid, alle oltre 35 ore settimanali che ogni donna italiana spendeva in varie attività quali la cura dei bambini, degli anziani, della casa, dei malati, solo per citarne alcune, se ne sono aggiunte ulteriori 15. E allora, non dovrebbe sorprendere il dato di dicembre del 2020: su 101.000 posti di lavoro persi nel mese, 99.000 erano di donne. E solo 2.000 di uomini. Ma, se si pensasse a questo come ad un dato contingente, si cadrebbe in errore: rammentiamo infatti che, in tutto il 2020, circa 3 posti di lavoro su 4 persi sono da imputarsi a forza lavoro femminile. E questo è il tema che più frequentemente sentiamo affrontare negli ultimi mesi. Dimenticando un fatto: che le donne producono reddito (per sé e per il paese) non solo attraverso i loro posti di lavoro dipendenti, ma anche attraverso la creazione di impresa.
Partiamo, come sempre, da qualche dato. Nel 2020, le imprese femminili in Italia sono oltre 1,3 milioni, pari a poco meno del 22% del totale. Stando ai dati del Rapporto Unioncamere, sono imprese prevalentemente localizzate nel Sud del paese e sono imprese giovani. Quanto alla concentrazione settoriale, sembrerebbe che l’abitudine alla cura da parte dell’universo femminile si riversi anche nella loro creazione di impresa, dal momento che la maggior parte delle attività si concentra nell’ambito della sanità ed assistenza sociale, nel wellness, nell’istruzione e nel settore turismo e cultura, oltre che nella moda. Sono imprese giovani, dicevamo. Ed anche all’interno del complesso delle imprese femminili, le imprese più giovanili sono più dinamiche, sotto il profilo dell’innovazione, dell’attenzione ambientale e della responsabilità sociale di impresa.
Ma come nascono queste imprese? E perché? In molti casi (ed i dati sul Mezzogiorno sembrano confermarlo), rappresentano una risposta delle donne, e soprattutto di quelle più istruite, ad un mercato del lavoro che non le domanda o non le valorizza. Sarà anche a causa dell’attuale normativa sul congedo di maternità e quello di paternità, che hanno durata spropositatamente diversa (5 mesi obbligatori per la mamma, 10 giorni obbligatori per il papà). Infatti, anche in letteratura, sempre più frequentemente si fa riferimento non tanto al gender gap, quanto alla childhood penalty, identificando nella maternità il fattore scatenante delle disuguaglianze di genere sul mercato del lavoro. Allora molto bene, in questa direzione, il Disegno di Legge “Interventi per l’equità di genere nel tempo dedicato al lavoro ed alla cura dei figli”, a prima firma del senatore Tommaso Nannicini, che propone una totale equiparazione nella durata dei congedi di maternità e di quelli di paternità (non ci stupisca: la vicina Spagna ha già concluso questo passaggio normativo storico mesi fa).
E quanto pesano, le imprese femminili? Negli anni compresi tra il 2014 ed il 2019, ovvero prima della pandemia, il tasso di crescita delle imprese femminili è stato molto più elevato rispetto a quello delle imprese maschili. Parliamo del 2,9%, a fronte dello 0,3% (in valori assoluti, un incremento di 38.080 unità contro 12.704). E di una crescita ininterrotta, sino al 2020. Cosa è accaduto nell’ultimo anno, nel quale, come abbiamo visto, il carico di cura non retribuita delle donne italiane è aumentato ulteriormente? Sarebbe stato lecito aspettarsi una contrazione rilevante delle imprese femminili, come risposta alla carenza di tempo (perché se c’è un fattore rispetto al quale uomini e donne sperimentano assoluta parità è proprio questo: la giornata, per entrambi, si compone comunque di 24 ore). I dati, al contrario, riferiscono di una variazione del solo -0,29%. Quindi, non si tratta solo di imprese dinamiche, ma anche di imprese resistenti. Che in molti casi hanno utilizzato il tempo della crisi per investire, rilanciare, ripensare le strategie.
Com’è accaduto nel caso delle sorelle Nardi, imprenditrici romane nel settore beauty. Che proprio durante la pandemia hanno deciso di rilanciare l’azienda di famiglia. Un’azienda storica, arrivata ormai alla quarta generazione ed attualmente guidata da Francesca e Alessia. Che mi raccontano del senso di spaesamento iniziale legato alla chiusura, ma anche della decisione di rilanciare. Di ampliare la carta dei servizi offerti. E di ripartire proprio da una ristrutturazione profonda. Contrariamente a quanto ci insegna gran parte della letteratura sull’imprenditoria femminile, una scelta caratterizzata da scarsa avversione al rischio.
Guardando al futuro, ma senza dimenticare le radici e non venendo meno alla tradizione imprenditoriale di famiglia. Dando vita così, proprio in un momento come questo di grande difficoltà, ad un mix interessante: profondo spirito di servizio, rapporti lavorativi stabili con i propri collaboratori (in un settore con elevatissimo turnover), le poltrone dei nonni conservate in uno degli ambienti, ma anche una nuova strategia social (affidata al milanese Dare Studio), la creazione di un mood cortese ed attento, ma non affettato e, mi confessa Francesca: “Flute sempre in frigo”.
È un nuovo modo di fare impresa, quello femminile. Possiamo affermare che rappresenti il futuro dell’imprenditoria? Probabilmente non tout court, ma sotto il profilo della responsabilità sì. Il Rapporto Unioncamere evidenzia, ad esempio, come le imprese femminili siano maggiormente green-oriented: il 31% di esse ha già investito nella sostenibilità ambientale, contro il 26% delle altre imprese. Ed il 72% ha adottato misure aggiuntive di welfare aziendale, a fronte del 67% delle altre imprese. Anche sotto questo profilo, quindi, una grande opportunità per l’intero paese. Che non possiamo permetterci di sottovalutare.
Twitter @laprofrinaldi