categoria: Vicolo corto
Così cambia tutto per le aziende. Benvenuti nell’era della project economy
Post di Emanuele Cacciatore, senior director industry strategy & transformation di Oracle e Nicola Comelli, content share & selection manager presso Phyd –
“Un’iniziativa temporanea intrapresa per creare un prodotto, un servizio o un risultato unico”. Il Project Management Institute (PMI), il principale ente internazionale impegnato nella promozione e nella diffusione della cultura del project management, usa queste parole per definire il termine “progetto”.
L’epoca di dirompenti trasformazioni che stiamo vivendo, fa assumere all’elemento della temporaneità indicato nella definizione un valore cruciale. Se, infatti, da un lato l’evoluzione tecnologica e la trasformazione digitale decretano progressivamente l’obsolescenza di approcci, competenze e strategie, dall’altro, proprio la tempestività dell’azione organizzativa ed economica è divenuta centrale. E non è solo una questione di time to market. La capacità di realizzare rapidamente un’idea è ormai il fattore determinante della sua stessa efficacia.
Ecco perché la locuzione “project economy”, che proprio il PMI ha coniato nel 2019, assume un significato estremamente interessante, ancora di più nello scenario post-pandemico che si sta delineando. Cindy Anderson, già vicepresidente del PMI, non a caso aveva parlato della “project economy” come di “una lente capace di permettere a persone e organizzazioni di trasformare realmente il cambiamento in opportunità”(1).
I casi di aziende che si sono vocate (o si stanno vocando) alla project economy si stanno via via facendo sempre più numerosi.
In questo senso, agli studiosi di management è ben nota la storia di Haier, il grande produttore cinese di elettrodomestici e di elettronica di consumo, che è invece un po’ meno conosciuta dal grande pubblico. Zhang Ruimin, che prese le redini del gruppo nel 1984, quando era sull’orlo del collasso, ha sviluppato un modello operativo basato sulla scomposizione dell’azienda in migliaia di vere e proprie microimprese, cioè entità organizzative minime, agili che creano o gestiscono prodotti o servizi per utenti finali specifici. Una sorta di startup-factory, dove ognuna di queste unità era – ed è – responsabile della sua stessa sopravvivenza sul mercato. Haier, in altre parole, può essere vista come una piattaforma che integra l’azione delle microimprese tra loro, con l’obiettivo di massimizzarne la reattività e accorciare i processi decisionali (2).
La project economy rappresenta un cambio di paradigma estremamente utile anche nella gestione dell’innovazione e della complessità crescente, tipica ormai di ogni settore di business. Laddove è necessaria la combinazione di competenze sempre più numerose ed eterogenee, l’approccio progettuale diventa fondamentale. Anche per questa ragione, stando all’indagine Pulse of the Profession del 2020, promossa dal PMI, emerge che il 58% delle organizzazioni intende investire sullo sviluppo di competenze di project management (3).
Un esempio ulteriore arriva da un altro ben noto caso di scuola: Spotify. L’azienda svedese leader nei servizi di streaming musicale, fondata nel 2006 da Daniel Ek e Martin Lorentzon, ha volutamente evitato, sin dalle origini, le strutture organizzative formali e si aspetta invece che i propri dipendenti si auto-organizzino attorno a progetti che trovano gratificanti da un punto di vista personale e professionale. Questi tipi di team sono multidimensionali e riuniscono personale con background, competenze e prospettive diverse. Sono anche potenzialmente di breve durata. Sperimentano qualcosa e se fallisce, si sciolgono per provare qualcos’altro. I membri di questi team possono, in molti casi, non essere nemmeno dipendenti a tempo.
È un modello per progetto che si basa su sperimentazione, rapidità del processo decisionale e assunzione di rischi calcolati.
Questo cambio di paradigma avrà conseguenze profonde sul profilo organizzativo delle aziende e sul loro stesso tessuto valoriale. Non più tardi di questa primavera, è stata pubblicata da Ayros Editore, l’edizione italiana di Humanocracy (4), l’ormai celebre volume di Gary Hamel e Michele Zanini che delinea un’alternativa concreta agli assetti aziendali per come li abbiamo sempre conosciuti. Questa alternativa, che passa per una piena responsabilizzazione di ogni singola persona rispetto ai propri ruoli e obiettivi , consente di immaginare organizzazioni in cui gerarchia e burocrazia sono ridotte al minimo e in cui le potenzialità del capitale umano sono realmente esaltate e valorizzate.
Hamel e Zanini parlano di “de-burocratizzazione” delle organizzazioni, al fine di proiettare al meglio le informazioni al loro interno nel nome di un’intelligenza collettiva le cui potenzialità sono ampiamente più rilevanti del tentativo di governare le intelligenze individuali. Si tratta di un’evoluzione legata a doppio filo con l’affermarsi della project economy dove il progetto diventa il fulcro sul quale un’azienda (o una parte di essa) insiste, e non più un derivato di un’azione più ampia (e più lenta) calata dall’alto.
In questo contesto di cambiamento permanente, le organizzazioni che non si sono adeguatamente strutturate, fanno segnare un incremento del 67% dei progetti che falliscono, schiacciati da una trasformazione troppo repentina di uno o più fattori collegati – direttamente o indirettamente – al progetto stesso.
In questo senso, ecco quali sono secondo il PMI i principi cardine per affrontare la project economy:
• Ability is agility: la rapidità a orientarsi nuovamente e progressivamente è di gran lunga più efficace di una strategia magari più brillante e però rigida.
• Technology rules, but people influence: le tecnologie sono davvero intelligenti solo se le persone che le governano e gestiscono lo sono altrettanto, se non di più.
• It’s a project leader’s world: la traduzione di un’idea in realtà avverrà sempre più con un approccio progettuale. In uno scenario nel quale tutto è destinato a diventare un progetto, l’impatto sul lavoro sarà certamente profondo. E suggellerà il primato di quelle soft skills che ormai possiamo definitivamente denominare power skills, perché è proprio dalla loro trasversalità che dipenderà il funzionamento di organizzazioni endemicamente sempre più fluide e agili.
Con un avvertimento però: ciò che funziona in un’organizzazione può non funzionare in un’altra. Come ci ricordano Hamel e Zanini “innestare un singolo processo all’avanguardia in un modello convenzionale di management è in genere un esercizio inutile e sterile – è come indossare la maglia numero 7 di Cristiano Ronaldo nella speranza di diventare una leggenda del calcio”.
Twitter @emacacciatore
NOTE
1. Welcome ti the project economy, by Cindy Anderson
2. HAIER: un’azienda che vale la pena studiare
3. Project Leadership And The Future Of Work
4. Humanocracy, come ridurre a zero la burocrazia in azienda