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Borse europee di eccellenza: per l’Italia un disastro da quasi un miliardo
Lo scorso 22 aprile sono stati annunciati gli esiti delle borse ERC Advanced Grant 2020 finanziate dalla Commissione Europea e destinate a scienziati affermati nel mondo della ricerca. Delle 2678 proposte pervenute alla commissione valutatrice, ne sono state selezionate 209, che si divideranno un totale di 492 milioni di euro di finanziamento.
Il Consiglio Europeo della Ricerca (European Research Council, ERC appunto) è un organo dell’Unione Europea destinato al finanziamento della ricerca scientifica e tecnologica di frontiera. L’ERC è costituito dal Consiglio Scientifico, organo indipendente composto da ricercatori di alto profilo, e da un’agenzia esecutiva (ERCEA, ERC Executive Agency), che si occupa dell’implementazione. Le principali borse ERC sono tre: lo Starting Grant, il Consolidator Grant e l’Advanced Grant. Come suggeriscono chiaramente i nomi, queste borse sono destinate a ricercatori di livelli di esperienza via via crescente. Lo Starting è destinato a giovani ricercatori con esperienza tra i 2 e i 7 anni a partire dal completamento del dottorato di ricerca. Per il Consolidator la fascia di esperienza sale tra i 7 e 12 anni, mentre per l’Advanced non ci sono vincoli formali, ma sono nei fatti destinate a ricercatori che abbiano almeno 10 anni di esperienza, corroborati da un curriculum di eccellenza. I progetti, che possono vertere su qualunque ambito di ricerca e sono aperti a ricercatori di tutte le nazionalità, si sviluppano su un orizzonte fino a cinque anni e, come già intuibile dai numeri riportati più sopra, godono di finanziamenti corposi: fino a 1,5 milioni di euro per lo Starting, fino a 2 milioni di euro per il Consolidator e fino a 2,5 milioni per l’Advanced. Ulteriori finanziamenti fino a 0,5 (Starting), 0,75 (Consolidator) e 1 milione di euro (Advanced) sono possibili sotto specifiche condizioni.
A partire dal 2007, anno di istituzione dell’ERC, le tre borse hanno distribuito un totale di 19 miliardi di euro a 10.823 progetti, con una media di 1,75 milioni di euro a borsa. Con i fondi della borsa, il beneficiario (il cosiddetto Principal Investigator) costruisce un suo team di ricerca, tipicamente di 5-10 profili bilanciati tra giovani dottorandi e ricercatori più esperti, senza dimenticare le consulenze di senior advisor. La maggior parte dei fondi della borsa serve proprio a finanziare queste posizioni. Tra l’altro, lo scorso 6 maggio si è tenuta una cerimonia alla presenza delle più alte cariche delle istituzioni europee in cui si è celebrato il raggiungimento dei 10mila beneficiari delle borse ERC. Il disallineamento con il numero totale di borse è spiegato col fatto che nulla vieta ad un ricercatore di applicare nuovamente per una borsa ERC anche se è già risultato vincitore in passato. A tal riguardo, a meritare una menzione è indubbiamente Paola Romagnani, ordinario di Nefrologia dell’Università di Firenze e responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Nefrologia e Dialisi dell’Azienda ospedaliero-universitaria Meyer, che quest’anno ha completato una straordinaria “tripletta” aggiudicandosi un Advanced Grant dopo aver vinto uno Starting nell’edizione 2007 e un Consolidator nell’edizione 2014.
Questo breve affresco illustra chiaramente perché le borse ERC siano particolarmente ambite nel mondo della ricerca, sia per il loro valore economico sia per il prestigio che vincerle comporta. Ma c’è un ulteriore aspetto che rende queste borse particolarmente appetibili in Italia. Le borse ERC sono infatti personali, pertanto il Principal Investigator può decidere di stabilirsi dove meglio crede. Spesso il ricercatore sceglie semplicemente di rimanere nell’istituto dove già svolge la propria attività, in altri casi invece si sposta in un altro istituto (eventualmente “spacchettando” il finanziamento su più istituti). Se la destinazione prescelta è un’università pubblica italiana, quasi sempre alla base c’è la considerazione per cui vincere una borsa ERC è sostanzialmente l’unico modo per conquistare una cattedra per chiamata diretta senza passare attraverso un concorso. Del resto l’eccellenza scientifica dimostrata vincendo la borsa e (soprattutto) la sostanziosa dote rappresentano un’accoppiata più che valida per essere corteggiati dal cronicamente sottofinanziato mondo accademico pubblico nostrano.
Ma qual è la performance italiana in ambito ERC? I dati del 2020 restituiscono un’immagine in chiaroscuro per il nostro Paese. Da un lato, i ricercatori italiani hanno ottenuto ottimi risultati, raggiungendo il record di 114 borse conquistate su un totale di 972 (in dettaglio, 53 su 436 Starting, 47 su 327 Consolidator e 14 su 209 Advanced). Dall’altro, si registra che solo 40 di loro svilupperanno il loro progetto nel nostro Paese: ben 74, infatti, hanno scelto una sede straniera, sia essa una nuova destinazione o la loro attuale sede. Molto spesso questo aspetto viene identificato come il nocciolo del problema, la cosiddetta “fuga di cervelli” che svuota l’Italia delle migliori eccellenze. Questo punto è senz’altro rilevante: del resto che quasi due terzi dei beneficiari italiani scelgano una sede straniera non è un fatto marginale. Tuttavia limitarsi a ciò offre solo una visione parziale del problema. Infatti la mobilità internazionale è la norma nel mondo della ricerca, e da un certo punto di vista è anzi incoraggiante che i ricercatori italiani possano avere accesso ai migliori istituti europei. Ciò che realmente rende drammatico il quadro è che la massiccia uscita di ricercatori italiani non è compensata da un altrettanto sostanzioso ingresso di ricercatori stranieri. A fronte delle 74 uscite, infatti, sono solo 5 i ricercatori stranieri che hanno scelto di stabilirsi in Italia.
Si è trattato di un anno particolarmente sfortunato o siamo di fronte ad un trend consolidato? E come si colloca l’Italia al confronto degli altri maggiori Paesi europei? Per rispondere esaustivamente a queste domande abbiamo raccolto i dati per le tre borse principali per tutti gli anni di erogazione dell’ERC (quindi dal 2007 in avanti) per Francia, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito, oltre naturalmente al nostro Paese.
La Figura 1 mostra come il numero di borse ricevute da ricercatori italiani che hanno svolto il proprio progetto nel nostro Paese siano state 487. Sommandole alle 553 borse portate dai ricercatori italiani all’estero, si ricava un totale di 1040 borse ottenute dai ricercatori italiani. Queste 553 borse in uscita sono state solo parzialmente compensate dalle 73 borse portate nel nostro Paese da ricercatori stranieri, che porta il totale dei progetti in Italia a 560. Il saldo netto negativo per il nostro Paese è quindi di 480 borse. Situazione diametralmente opposta si osserva per il Regno Unito: i cittadini britannici hanno conquistato 1241 borse, mentre i progetti sviluppati Oltremanica sono stati 2165. Il saldo netto positivo è stato quindi di 924 borse. Tuttavia il Regno Unito fa notoriamente caso a sé: il livello delle proprie università di punta e il fattore linguistico sono due elementi di impareggiabile attrattività nel panorama europeo (e non solo). Più significativo è invece il confronto con gli altri tre Paesi considerati. Lo scenario non è comunque più confortante: la Germania denota un bilancio leggermente negativo (1855 le borse ottenute da ricercatori tedeschi contro le 1737 ospitate in Germania, saldo -118), la Spagna è in perfetto equilibrio (596 borse di ricercatori spagnoli contro le 599 ospitate in Spagna, saldo +3), mentre la Francia segna un bilancio in attivo (1137 le borse ottenute da ricercatori francesi contro le 1311 ospitate in Francia, saldo +174). Anche escludendo il Regno Unito, a differenza dell’Italia tutti i maggiori Paesi europei mostrano quindi un bilancio sostanzialmente in pareggio.
Figura 1 – Numero di borse erogate per nazionalità e Paese.
Figura 2 – Saldo numero borse erogate: Paese vs cittadini.
Peraltro, il saldo negativo della Germania va contestualizzato. Infatti se si normalizzano i risultati sulla popolazione, si osserva che i ricercatori tedeschi hanno segnato la migliore performance del lotto, con 22,1 borse per milione di abitanti. Gli italiani (17,5) competono con britannici (18,5) e francesi (16,6), mentre gli spagnoli hanno ottenuto risultati meno incoraggianti (13,2). Se si fa riferimento al Paese, con 20,7 borse per milione di abitanti la Germania è seconda solo dietro all’inarrivabile Regno Unito (31,7). In altre parole, la Germania è molto attrattiva, ma i ricercatori tedeschi sono talmente performanti che il saldo Paese finisce con l’essere negativo. La Francia mostra livelli simili alla Germania (19,2 borse per milione di abitanti). La Spagna è molto più indietro (13,2), per non parlare dell’Italia che è desolatamente ultima in questa classifica con 9,4 borse per milione di abitanti, meno della metà di Francia e Germania. La morale della favola è chiara: l’Italia produce ricercatori competitivi a livello europeo, ma non è in grado di trattenerli e/o di attrarre ricercatori stranieri, con un ovvio effetto di depauperamento sul sistema di ricerca di eccellenza. Non stupisce che nessun istituto italiano figuri nella lista dei trenta principali beneficiari di borse ERC (per la cronaca, in cima alla lista troviamo il Centre National de la Recherche Scientifique, sostanzialmente l’omologo francese del nostro CNR, che precede le Università di Oxford e Cambridge).
Per meglio visualizzare questi concetti, le Figure 3 e 4 mostrano i dati di Figura 1 in termini relativi. Per i motivi sopra elencati, più dell’80% dei cittadini britannici ha deciso di rimanere in patria per svolgere il proprio progetto (Figura 3). Non lontano è comunque il valore per i ricercatori francesi (78%), mentre percentuali più basse si riscontrano per spagnoli (71%) e tedeschi (63%). A fronte di questi valori per i colleghi europei, meno della metà dei ricercatori italiani ha deciso invece di rimanere in Italia (47%). Dall’altro lato (Figura 4), ben l’87% dei progetti svolti in nel nostro Paese è condotto da un ricercatore italiano, mentre solo il 13% è svolto da un ricercatore straniero. Due terzi dei progetti svolti in Francia, Spagna e Germania sono condotti da ricercatori locali, mentre poco meno della metà dei progetti svolti nel Regno Unito è dovuto a ricercatori britannici.
Figura 3 – Destinazione borsisti per cittadinanza.
Figura 4 – Nazionalità borsisti nel Paese.
Considerando l’importo medio delle borse per ognuna delle tre tipologie in ogni anno di concorso, si può ricavare la traduzione in termini monetari di questo quadro, che peraltro non riserva sorprese (Figura 5). La sostanziale omogeneità dei trend per nazioni nelle tre tipologie di borse, unita all’entità economica tutto sommato paragonabile delle stesse, determina infatti che Figura 5 sia praticamente identica alla Figura 1 in termini qualitativi. Le 1040 borse ottenute dai ricercatori italiani hanno generato un controvalore di 1797 milioni di euro, che vanno confrontati con i 997 milioni di euro dei 560 progetti svolti in territorio italiano: per il nostro Paese, un saldo netto negativo di 800 milioni di euro (Figura 6). Prevedibilmente, del tutto opposto il quadro Oltremanica: a fronte dei 2,35 miliardi di euro ottenuti dai progetti guidati da Principal Investigator britannici, il Regno Unito ha ospitato borse per un controvalore di 3,85 miliardi di euro, generando quindi un surplus di un miliardo e mezzo di euro. Del saldo negativo della Germania (200 milioni di euro) si è discusso sopra: i 3 miliardi di euro di progetti ospitati sono un valore considerevole, ma sono superati dagli ancor più considerevoli 3,2 miliardi di euro dei progetti sviluppati dai ricercatori tedeschi. Come già notato, la Spagna è in perfetto equilibrio (7 milioni di euro il saldo positivo generato dal sistema spagnolo, che ammonta a poco più di un miliardo), mentre la Francia ha goduto di circa 300 milioni di euro di surplus, dovuto ai 2,3 miliardi di euro dei progetti ospitati nel Paese transalpino a fronte dei 2 miliardi di euro di progetti firmati da ricercatori francesi.
Figura 5 – Valore economico delle borse erogate per nazionalità e Paese.
Figura 6 – Saldo valore borse erogate: Paese vs cittadini.
Non è tra gli obiettivi di questo articolo andare ad affrontare le cause puntuali alla base di questo fenomeno. Peraltro, non andremmo a evidenziare alcunché che non sia già stato analizzato e discusso più e più volte. Il dato di fatto è che il nostro Paese non riesce a uscire dal più classico circolo vizioso. L’Italia infatti investe in ricerca e sviluppo solo l’1,5% del PIL, a fronte di una media europea del 2,2% (in dettaglio, 3,2% in Germania, 2,2% in Francia, 1,8% nel Regno Unito e 1,1% in Spagna – dati Eurostat). Questo si traduce in un ecosistema meno performante e attrattivo che a sua volta produce meno fondi: nel caso delle borse ERC, un impatto da quasi un miliardo di euro in poco più di un decennio.
In queste settimane il dibattito pubblico è inevitabilmente focalizzato sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che doverosamente alloca una fetta rilevante degli investimenti nell’ambito della ricerca. La speranza è ovviamente che questo inneschi un circolo virtuoso che, almeno nel medio termine, possa impattare positivamente sull’attrattività dell’ecosistema della ricerca italiano.
Le visioni espresse in questo articolo sono da attribuirsi esclusivamente all’autore e non possono in alcun modo essere considerate come una posizione ufficiale della Commissione Europea.
L’autore desidera ringraziare Carlotta Allegra Casati per il supporto nella raccolta dei dati.