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Reshoring, alcune ipotesi sugli effetti della pandemia
Post di Hervé Domenighini, Sales Director Key Accounts Assos of Switzerland e studente EMBA Ticinensis 2019-2021 –
Dal 2011, circa 250 aziende hanno avviato progetti di rilocalizzazione in Europa o nel proprio Paese di origine, secondo il progetto denominato European Reshoring Monitor, di cui circa 140 hanno portato a termine il processo entro il 2020, per un totale di 12.840 nuovi posti di lavoro creati o da creare secondo le proiezioni. Per tenere traccia di queste pratiche di re-shoring la Commissione Europea ha promosso questo database, attivo dal 2015 al 2018, con l’obiettivo di analizzare tutti i casi di reshoring europei. Tuttavia, trattandosi di uno studio condotto per un limitato periodo di tempo, non vi è certezza del reale impatto sul mercato del lavoro. Spesso la rilocalizzazione fa parte di un piano strategico ad ampio raggio, che punta in primis a saturare la capacità produttiva di stabilimenti già esistenti. Inoltre, l’evoluzione delle tecnologie per l’automazione ha rallentato questo processo.
Secondo vari esperti, analisti ed istituzioni, la pandemia modificherà il modello di Value Chain che caratterizza ormai l’economia globale da un trentennio circa, segno indelebile della globalizzazione, ma sarà un fattore determinante di rilocalizzazone?
Cosa si intende per reshoring o rilocalizzazione?
Facciamo un passo indietro: cosa si intende per reshoring o rilocalizzazione e perché alcune aziende hanno optato per questa strategia? Da vocabolario, rilocalizzare significa “spostare, stabilire in altro luogo, localizzare altrove”. Se applicato all’ambito economico europeo, trattasi quindi di cambiare strategia a livello di catena del valore globale (GVC, Global Value Chain) riportando in patria o in Europa parte della produzione delocalizzata altrove negli anni precedenti. È un trend piuttosto recente come si può immaginare e non a caso il termine è classificato dall’Enciclopedia Treccani come “neologismi 2008” (fonte: Treccani). Una distinzione ulteriore vien fatta per backshoring e nearshoring (Eurofound 2019; Piatanesi e Arauzo-Carod 2019): nel primo caso la rilocalizzazione avviene nel Paese d’origine, mentre nel secondo si tratta di una rilocalizzazione in uno Stato più vicino alla nazione d’origine.
Tornando ai dati empirici dell’European Reshoring Monitor, la maggior pare dei casi di reshoring fa riferimento al settore manifatturiero (86%). Le aziende impegnate in questo cambio di rotta operano principalmente in industrie high-tech (macchinari ed equipaggiamenti 8%, computer/elettronica/prodotti ottici 15%, equipaggiamento per trasporti/logistica 7%, ecc.). A livello dimensionale, nel 60% dei casi si tratta di aziende con più di 250 addetti. Se analizziamo i dati a livello territoriale, il numero maggiore di casi di rilocalizzazioni proviene da aziende basate nel Regno Unito (17%), Italia (15%), Francia (14%), Danimarca (8%), Norvegia (8%) e Germania (7%). Sebbene spesso si faccia riferimento a produzioni nei Paesi asiatici, in realtà il 47% dei casi analizzati si riferisce ad aziende che hanno rilocalizzato da nazioni dell’Area Economica Europea (EEA), soprattutto dalla Polonia e Germania, contro un 42% da Asia, Cina in primis.
Analizzando la banca dati sopracitata, le ragioni a favore di questa strategia scelta sono state molteplici: riorganizzazione globale dell’azienda (24%), tempi di consegna (22%), effetto “Made in” legato ai marchi ed ai nuovi trend (16%), maggiore automazione dei processi in loco (20%), problemi di qualità (19%), problemi doganali, implementazione di strategie basate su innovazione di prodotto/processo in loco per evitare dispersione di know-how, incrementare la produzione locale, maggiore protezione della proprietà intellettuale, costi della logistica, prossimità a consumatori (17%) e fornitori locali, incremento del costo del lavoro in vari Paesi.
Da queste evidenze empiriche, possiamo trarre alcune prime conclusioni. Le operazioni di reshoring sono in aumento, ma rimangono un numero limitato ed hanno di conseguenza effetti minimi sull’economia Europea. A supporto di questa tesi, l’effetto reale è minimizzato se consideriamo che circa la metà delle operazioni analizzate nello studio riguardano casi di rilocalizzazione tra Paesi intra europei e, inoltre, alcune aziende stanno comunque attuando la loro strategia di delocalizzazione.
Quale futuro per il reshoring a seguito della pandemia?
A livello aziendale, il Covid-19 ha generato non pochi problemi a livello di consegne e ritardi di produzione. Questo effetto si è amplificato nei settori che hanno subito una forte crescita grazie (purtroppo) alla pandemia, come per esempio tutti i business strettamente legati agli sport all’aria aperta (ciclismo, corsa, …). Il motivo è che la maggior parte delle produzioni sono off-shore e la domanda si è impennata nell’ultimo anno per via anche degli incentivi statati in alcuni Stati, Italia in primis. Oltre a ciò, il trend delle bici elettriche e dei cosiddetti bike-commuters ha supportato questa crescita importante e nuovi ciclisti, di tutte le età, si stanno affacciando a questo sport.
Inoltre, la dipendenza dalla Cina per l’importazione di molti prodotti (Gurvich e Hussain) ha fatto riflettere sull’importanza di avere più “autonomia”, basti pensare al problema della disponibilità di mascherine protettive all’inizio della pandemia perché prodotte principalmente nei Paesi asiatici colpiti per primi. A questo proposito è interessante analizzare come le aziende cinesi, di contro, si sono adattate al cambiamento inaspettato e alla crescita esponenziale della domanda di certi prodotti. Una su tutte la BYD, azienda cinese produttrice di auto elettriche, sostenuta tra gli investitori da Warren Buffett, che ha convertito parte della produzione in mascherine protettive arrivando a produrne 50 milioni al giorno a maggio 2020. Con un calo dei volumi delle auto del 7,5%, la riconversione interna ha invece portato l’azienda a chiudere il 2020 con un utile netto a 4,23 miliardi di yuan (circa 540 milioni di euro) rispetto a 1,61 miliardi di yuan del 2019 e quindi una crescita di più del 260% (fonte: Reuters).
Le aziende per anni hanno focalizzato la loro attenzione su efficienza e crescita, ma nessuna era pronta per una “disruption” del genere e pensare che dopo questa crisi le strategie torneranno ad essere le medesime è poco credibile, ancor più in questo decennio in cui il sistema economico è alla ricerca di modelli di business sostenibili.
Questa “interruzione temporanea della globalizzazione” ha avuto naturalmente effetti anche sulle economie dei singoli Stati, a partire da beni strategici come farmaci e materiale medico, fino ad arrivare alla componentistica per i settori come l’automotive, che hanno avuto conseguenze negative importanti sul PIL dei Paesi. In Italia, sulla base dei dati sull’andamento del PIL trimestrale, la produzione reale è scesa dell’8,8% nel 2020. Le previsioni della Commissione europea ad inizio 2021 proiettavano il Bel Paese ad una crescita del PIL reale del 3,4% per l’anno in corso (fonte: OECD Economic Outlook, Interim Report). QUalche settimana fa le previsioni sono state riviste al rialzo: +4,2% e +4,4% rispettivamente nel 2021 e nel 2022.
A livello politico, gli argomenti di discussione affrontati sono stati molteplici, ma la situazione ha fatto riflettere sull’importanza di misure di protezione e supporto alle produzioni locali, riattivando la discussione sul fenomeno del reshoring. Essendo considerato un elemento cardine della riconfigurazione della supply chain globale, quali sono e saranno gli effetti del Covid-19 a questo proposito?
A partire dalla letteratura a riguardo, ed in particolare un’analisi effettuata nel 2020 da Boffelli e Johansson, si può considerare il Covid-19 come un fattore “trigger” ovvero determinante nella decisione strategica. Nel breve periodo, alcune aziende hanno deciso di rilocalizzare per problemi legati al blocco delle produzioni in Cina, ma nel medio-lungo periodo le motivazioni potranno essere diverse. In primis, ridurre il rischio di esposizione in caso di altre emergenze mondiali, evitando di trovarsi spiazzati o nell’ottica di una soluzione di back-up. Un altro motivo della spinta alla rilocalizzazione potrebbe essere dato dalle associazioni industriali o i governi che, a seguito di quanto accaduto, sono pronti a supportare le aziende che torneranno in patria. Ad esempio il Governo francese ha lanciato un bando nel 2020 per la produzione in Francia di paracetamolo (fonte: Le Figaro).
Alla stessa maniera, anche i consumatori stanno forzando le imprese a fare scelte importanti. Basti pensare al mondo della moda e del lusso, invaso dal trend della sostenibilità negli ultimi anni, dove filiere intere si stanno riorganizzando per produrre con una “local value chain” e migliaia di startup che puntano sul “Made in” piuttosto che su tessuti organici/biologici del territorio.
Le nuove tecnologie, robotica in primis, stanno incrementando l’automazione di siti produttivi in Europa. In Germania, per esempio, i settori più esposti al rischio di interruzione della catena del valore delocalizzata sono quello automobilistico, elettronico/prodotti elettronica, attrezzature per il trasporto e tessile. Circa il 12% dei componenti viene importato da Paesi terzi a basso costo, rispetto al 6,5% della media nazionale (fonte:VoxEu CEPR), ed i settori con il tasso maggiore di attività di rilocalizzazione sono quello chimico, metallurgico, elettronico/prodotti elettronica (fonte: World Input Output Database), tutti business generalmente ad alto tasso di automazione.
In contrapposizione a quanto descritto prima, ci sono studi che dimostrano che le economie hanno raramente optato per strategie di rilocalizzazione a seguito di catastrofi naturali, come terremoti, tsunami o alluvioni (per approfondimenti su casi specifici Abe & Hoontrakul; Abe & Ye; Basher et al.), pur non trattandosi di crisi su scala internazionale. Nel concreto, la pandemia ha bloccato temporaneamente l’economia globale ma non ha danneggiato fisicamente l’intera produzione di un Paese, come nei casi studio sopra citati. Inoltre, il processo di globalizzazione è ormai parte integrante del tessuto economico mondiale ed è ormai esteso in maniera capillare ed interconnessa. Infatti si parla sempre più spesso dell’evoluzione da supply chain a supply network (fonte: Deloitte 2020). Per questa ragione, la rilocalizzazione rischia di avere effetti limitati su parte della catena del valore, ma il legame con l’economia globale rimarrà, volenti o nolenti. Anzi, alcune aziende potrebbero anche optare per diversificare il portfolio fornitori su diversi Paesi per ridurre il rischio in caso di catastrofi future, riorganizzando geograficamente le fasi delocalizzate, ma non rilocalizzando nulla.
Si parla del concetto di “Autonomia strategica” (fonte: OECD), con l’obiettivo per gli Stati di mettere in sicurezza i prodotti essenziali in base alle priorità. E se fosse applicabile anche a livello aziendale? Perché non puntare su una strategia di diversificazione della supply chain con l’obiettivo di mettere in sicurezza le varie fasi del processo? Una sorta di piano strategico di emergenza che permetta alle aziende di rispondere in caso di shock globali grazie ad un mix tra rilocalizzazione delle fasi più sensibili e la creazione di un back-up network locale. Quale ruolo dovrebbe avere gli Stati per supportare questo cambiamento? Una soluzione precisa, chiara ed unica non esiste, l’unica certezza è che questa pandemia sta facendo riflettere sui pro ed i contro della Global Value Chain in caso di “disruption”, dove stabilità finanziaria e resilienza sono ottimi palliativi, ma che per definizione medica “si limitano a combattere provvisoriamente i sintomi di una malattia”.
FONTI
OECD Economic Outlook, Interim Report
European Parliament Think Tank Post Covid-19 value chains: options for reshoring production back to Europe in a globalised economy
What can we learn about reshoring after Covid-19?
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