categoria: Res Publica
Il paradosso: si muore per troppo lavoro ma i disoccupati aumentano
Nel mondo 745mila individui muoiono a causa del troppo lavoro, ovvero lo svolgimento dell’attività professionale per un numero di ore tanto elevato da risultare nocivo. È quanto ha concluso l’Organizzazione Mondiale della Sanità sintetizzando i dati di 37 studi sulle malattie cardiache ischemiche che mappano oltre 768mila partecipanti e i dati di 22 studi sull’ictus che interessano oltre 839mila persone.
Lo studio, pubblicato su Environment International e basato sui dati di oltre 2mila indagini raccolte in 154 paesi dal 1970 al 2018, mostra che, a causa dell’aumento del tempo dedicato al lavoro anche fino a 55 ore settimanali, il rischio di morte per ictus o malattie cardiache è incrementato rispettivamente del 35 e del 17 per cento, con maggior danno soprattutto per gli uomini (72 per cento, nei due terzi dei casi di mezza età) e per chi risiede nelle regioni del Pacifico occidentale e del sud-est asiatico.
QUANTE ORE SI LAVORA?
Il tempo mediamente dedicato al lavoro ha subito un andamento decrescente negli ultimi 150 anni (per il 1870 si stima un valore di 60-70 ore settimanali), soprattutto nei Paesi più ricchi (come mostrano le rilevazioni di Our World in Data illustrate nel grafico seguente), ma permangono ancora grandi differenze geografiche.
Considerando l’evoluzione degli ultimi 70 anni, si possono notare meglio le differenze tra diversi Paesi. In Germania ad esempio la riduzione dell’orario del lavoro è tuttora in atto, mentre negli Stati Uniti si assiste ad una certa stabilità. In Corea del Sud l’andamento è a U, con un netto aumento tra il 1950/80, e in Cina si nota un accenno di incremento.
L’EFFETTO COVID-19
Ora, però, le conseguenze sull’organizzazione del lavoro innescate dall’emergenza sanitaria rischiano di radicarsi e di inasprire -a livello generalizzato- i dati. Infatti, solo a causa del ricorso allo smart working, il numero di ore lavorate alla settimana è mediamente aumentato (fino a 2 ore, secondo le rilevazioni e di Banca d’Italia) e, secondo Osservatori.net del Politecnico di Milano, lo smart working potrebbe divenire il new normal. Il 52 per cento delle grandi imprese progetta difatti di intervenire sugli spazi fisici al termine dell’emergenza e solamente l’11 per cento potrebbe riprendere le modalità lavorative precedenti.
Alcuni studi (Eurofound e OIL, 2017) hanno già dimostrato in epoca pre-pandemica che lo smart working aumenta l’intensità del lavoro e il conflitto tra lavoro e vita privata, influendo negativamente sul benessere e sul livello di stress dei lavoratori. Oltre a ciò, il ricorso prolungato o definitivo a forme di smart working porrebbe allora più persone a rischio di ictus o di malattie cardiache per eccesso di lavoro, secondo quanto illustrato dall’OMS nello studio citato nell’incipit.
IL PARADOSSO
L’Organizzazione internazionale del lavoro stima un aumento della disoccupazione globale fino a 24,7 milioni di persone, cui si sommano i 188 milioni di disoccupati censiti prima della pandemia, e quantifica in 35 milioni le persone che si troveranno in condizione di povertà lavorativa.
Pensando a questi dati, sapere che 745mila individui muoiono a causa del troppo lavoro sembra un paradosso, eppure è una situazione reale e conviene conoscerne esattamente i contorni per potervi intervenire.
AZIONI CONGIUNTE A PROTEZIONE DELLA SALUTE
Dimostrata quantitativamente la responsabilità di un orario di lavoro prolungato, è ora infatti necessario interrogarsi a riguardo e interfacciarsi con un nuovo fattore di rischio professionale per la salute. Un fattore di rischio accelerato dal Covid-19 e dalla prospettiva che, anche quando la pandemia verrà contenuta dai piani vaccinali, permarrà la preferenza per lo smart working da parte delle imprese.
Come anche asserito nelle dichiarazioni a corredo della pubblicazione dello studio “Nessun lavoro vale il rischio di ictus o malattie cardiache” e “I governi, i datori di lavoro e i lavoratori devono lavorare insieme per concordare limiti per proteggere la salute dei lavoratori”. Occorrono insomma interventi concreti affinché morire di troppo lavoro (con quasi 25 milioni di nuovi disoccupati al mondo) non diventi la nuova normalità.
Anche perché la correlazione diretta tra ore di lavoro e produttività è messa in dubbio (Pang, 2017), come dimostrano le sperimentazioni di una settimana lavorativa di 4 giorni (attivata da Microsoft nel 2019 e esitata in un aumento della produttività di + 40 per cento) o di una giornata lavorativa di 6 ore (avviata da Toyota nel 2002 e esitata in un incremento dei profitti del 25 per cento).
Più recentemente, vi sono già proposte di sperimentare la riduzione del’orario di lavoro per un massimo di 32 ore settimanali o per 6 ore giornaliere in Spagna e in Finlandia, decisioni che potrebbero spostare le preferenze degli individui verso un cambiamento positivo e maggiormente salubre dell’uso del tempo (nel grafico le rilevazioni di Our World Data in proposito).