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Recovery Fund, la risposta europea all’austerity è un mito o funzionerà?
Post di Gabriele Guzzi, laurea con lode in Economia alla Luiss e alla Bocconi, ha lavorato presso lavoce.info ed è stato presidente di Rethinking Economics Bocconi. Attualmente svolge un dottorato di ricerca presso l’Università Roma Tre ed effettua attività di consulenza e analisi economica presso istituzioni. Ha pubblicato, in dialogo con Geminello Preterossi, “Contro Golia. Manifesto per la sovranità democratica” (Rogas, 2020) –
La questione del cosiddetto Recovery Fund è stata approfondita largamente sotto gli aspetti sia economici che politici. Chi scrive, tuttavia, ritiene che per comprendere appieno la portata di questa misura bisogna assumere una chiave interpretativa molto più profonda, quella del mito.
Come sappiamo dalle ricerche antropologiche più importanti (1), ogni esistenza collettiva si fonda su un racconto. Questo ha il ruolo di dare senso alle cose che accadono, di inserirle in un quadro, in una narrazione sensata su ciò che succede. Ogni mito ha una triplice funzione all’interno di una società: spiega l’origine, indica una norma e promette un compimento. Ha cioè la funzione di dare un significato alla temporalità collettiva.
Anche a livello individuale, se ci pensiamo bene, noi fondiamo sempre la nostra esistenza su un racconto. Molto spesso diciamo che “siamo in una fase di vita”, o “in una fase di passaggio”. Interpretiamo cioè il nostro tempo non come un susseguirsi caotico di momenti, ma come un’evoluzione precisa e sensata di fasi, che tendono ad uno scopo, ad una evoluzione, magari faticosa, persino dolorosa, ma comunque sopportabile proprio in nome di un senso che, in un certo senso, ci raccontiamo.
La stessa psicoanalisi ha compreso come la produzione di un significato, di un logos (2), sia un grandioso strumento terapeutico. Noi guariamo nella misura in cui vediamo che la nostra vita si arricchisce di un senso, di una direzione, che sottrae le nostre temporalità all’insensatezza di eventi accidentali. Questo approccio era noto anche alle tribù primitive, ben prima della “scoperta” dell’inconscio. Dice infatti, Umberto Galimberti (3), in merito alle sedute di guarigione sciamaniche:
“Lo sciamano e i convenuti non confortano il paziente, ma gli raccontano una storia, un mito. Partecipandovi, il malato si trova a disporre di un linguaggio in cui poter esprimere immediatamente tutti quegli stati non formulati e altrimenti non formulabili. […] Ed è proprio attraverso questa contestualizzazione, resa possibile dal linguaggio mitico messo a disposizione, che il malato può vivere in forma ordinata e intelligibile un’esperienza che altrimenti sarebbe folle e inafferrabile.”
Il mito e l’economia
Sembra che questa introduzione, magari anche interessante, non abbia molto a che fare con l’ambito economico, ancor meno con una materia così apparentemente tecnica come il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) dei paesi europei.
In realtà, anche a livello di convivenza economica, ogni società si fonda sempre su una determinata mitologia. Ogni pensiero economico, e quindi ogni applicazione pratica, trae la capacità di sopravvivere proprio offrendo agli umani un’interpretazione efficace delle situazioni. Senza questa visione, nessuna società economica durerebbe, ma verrebbe spazzata via all’emergere delle prime difficoltà. Il racconto, invece, dà senso ai traumi e stabilità al vivere comune.
Pensiamo solo a pochi esempi. Il comunismo si fondava sulla mitologia marxiana, per cui la soppressione della proprietà privata avrebbe addirittura portato al superamento dell’alienazione dell’uomo; il fascismo riteneva che l’unione in corporazioni sotto lo spirito della nazione avrebbe condotto alla fine del confitto tra classi; il pensiero liberista che l’eliminazione dell’invasione economica dello Stato e il dispiegamento delle forze private della produzione e del commercio avrebbe portato al raggiungimento del massimo benessere sociale; etc.
Ogni fase economica si fonda quindi su una mitologia economica, una visione del mondo che spiega l’origine di una situazione (ruolo cosmologico), la direzione regolativa del comportamento (ruolo morale) e offre un orizzonte di compimento per il futuro (ruolo escatologico).
Come è stato spiegato da alcuni autori (4), anche di recente abbiamo vissuto, soprattutto in Europa, in una determinata mitologia economica. Dopo la crisi del 2008, e l’insorgere di turbamenti sul mercato dei debiti sovrani, siamo entrati nella mitologia del debito. Come ogni racconto fondativo, esso assolveva ai tre ruoli sopramenzionati. Dava un’interpretazione dell’origine della situazione, che in quel caso era il fantomatico sperpero delle risorse pubbliche compiuto nei decenni passati, indicava un’azione regolativa per il presente, l’austerità e la riduzione della spesa, e offriva un compimento di ripresa economica che dava senso ai famosi “sacrifici” che dovevamo compiere.
Ogni società ha quindi un mito. Quando parliamo di racconti fondativi, mitologie, non diamo a questi termini un senso immediatamente negativo. Il punto è semmai un altro: quale mito vogliamo che regoli il nostro vivere comune? I racconti fondativi, infatti, sebbene appaiano scelte arbitrarie, non sono delle mere espressioni della volontà di un individuo. Il punto è che un mito dura se funziona, se cioè la triade di cosmologia, morale e promessa di compimento funziona. Un mito funziona se creduto ed è creduto se funziona.
Ogni mito ha quindi una sua legalità vincolante, ed essa dipende dalla capacità di spiegare il tempo e di far fruttificare le esistenze, individuali e collettive. Quando un mito non realizza ciò che ha promesso, viene scartato, fallisce. Quando un mito viene scartato, una società entra in crisi, perché non sa più spiegare sé stessa. Lo stesso, come sappiamo, accade a livello individuale. Quando il senso che avevamo dato alle nostre vite non funziona più, e i piani di vita a cui avevamo creduto falliscono, entriamo in un interregno di confusione, in una impasse. Tutte le crisi, sia collettive che individuali, corrispondono alla fine della legalità vincolante di un mito. In questo senso, ogni crisi è una fase difficile ma potenzialmente molto propizia.
Il mito del debito in Europa, ad esempio, non è durato molto. Quando i popoli del Sud hanno sperimentato che, nonostante i sacrifici, la crisi non migliorava ma peggiorava, e che quindi la triade mitologica non funzionava, hanno incominciato a dubitare, a mettere in discussione il proprio mito fondativo. La crisi della mitologia del debito ha fatto emergere la crisi dell’Area Euro, con l’insorgere dei movimenti “populisti”, i quali volevano o uscire dall’Euro o rigenerare dal profondo le fondamenta politiche ed economiche del continente.
Il mito del Recovery Fund
Questa lunga, ma doverosa, introduzione ci serve per capire che non c’è niente di male a cercare un senso nelle nostre società. Il punto, semmai, è la capacità di funzionare di questo mito. Ci sono, infatti, racconti che durano millenni e danno una direzionalità a interi mondi storici, e altri che durano il tempo di qualche semestre.
Con lo scoppio della pandemia, e dopo le prime titubanze in merito ad una risposta solidale comune, l’Unione Europea è entrata in un’altra mitologia, quella del Recovery Fund. Fallito il mito del debito, esplosi i movimenti populisti, l’Unione Europea sembrava fosse entrata in una crisi definitiva, priva appunto di un racconto che potesse rinvigorire il senso di appartenenza dei popoli europei. Il Recovery Fund è la risposta dell’UE non solo allo scoppio della pandemia ma al fallimento delle politiche di austerità. È un tentativo di ridare un racconto aggregativo e fondativo al processo di integrazione.
Il punto, come forse abbiamo capito, non è ideologico (è normale che ogni società tenti di spiegare sé stessa ai propri membri) ma funzionale. Durerà? Il Recovery Fund soddisferà le promesse mobilitate, le aspettative suscitate? Sarà all’altezza di sé stesso? In questa sede, ci possiamo limitare a qualche breve considerazione.
È indubbio che il Next Generation EU sia un passaggio simbolico significativo. Per la prima volta, si sottoscrive debito comune europeo ad un livello quantitativamente importante, e si offre una risposta comune ad una crisi economica. Questo dispositivo è universale, anche se aiuta di più i paesi con maggiori difficoltà. Il passaggio simbolico è evidente, ma, al di là del simbolo, c’è una sostanzialità economica? E non in astratto, in cui uno potrebbe anche accontentarsi di quanto in questo contesto si poteva ottenere, ma in concreto, ossia all’altezza del racconto che soprattutto in Italia si sta facendo? È un vero “passaggio storico”, “un’occasione che non ritornerà”, “una pioggia di miliardi”, etc.?
Su queste promesse, ci sono almeno due perplessità.
Come sappiamo, il solo Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF) garantisce 191,5 miliardi di euro, nel periodo 2021-2026, a cui vanno aggiunti i 13 miliardi di React EU, e i 30 miliardi del Fondo Complementare. Dei 191,5 miliardi, tuttavia, solo 68,9 miliardi sono sovvenzioni, ossia a fondo perduto, mentre gli altri 122,6 sono debiti, a lunga scadenza e a tassi d’interesse bassi, ma pur sempre debiti, che una volta dovranno essere ripagati. Infatti, a differenza dei normali titoli di debito italiano, come i BTP, i debiti europei ad oggi non saranno rinnovati alla scadenza, ma dovranno essere direttamente ripagati dallo Stato italiano, che si dovrà finanziare, ceteris paribus, con debito italiano o con un aumento di tasse.
Come mostra la figura 1, la percentuale sul Pil delle sovvenzioni RRF e la prima tranche del React-EU ammontano al 4,5% del Pil italiano del 2019 (5). Se consideriamo che, tra spese aggiuntive e mancati introiti, il Fondo Monetario Internazionale ci dice che lo Stato italiano ha sostenuto nel solo 2020 una risposta fiscale discrezionale pari a circa il 7,9% del Pil italiano del 2019 (6), ci accorgiamo di quanto le sovvenzioni europee non corrispondano affatto a valori faraonici o risolutori. In più, va considerato che mentre quel 7,9% si concentrava su un solo anno, il 4,5% dei fondi europei va spalmato su un orizzonte di sei anni.
Figura 1 – Sovvenzioni RRF e prima tranche React-EU in rapporto al Pil del 2019
In realtà, se dovessimo essere ancora più precisi, va ricordato che le sovvenzioni europee sono sì a fondo perduto all’interno del RRF, ma in qualche modo dovranno essere ripagate dall’UE (che questi fondi li prende a prestito). E come potrà ripagare i fondi la stessa Unione Europea? Attraverso i contributi dei paesi membri, e quindi anche dell’Italia, o attraverso l’imposizione di nuove tassazioni. Le famose sovvenzioni sono, quindi, certamente a fondo perduto all’interno del Recovery Fund ma non all’interno dell’intero bilancio UE, a cui l’Italia contribuisce ogni anno con importanti saldi netti positivi. Per capire meglio, anche per il bilancio ordinario dell’UE l’Italia riceve delle risorse, ma l’Italia è una contributrice netta, cioè trasferisce all’Europa più di quanto riceve (nel 2018 l’Italia – secondo la Corte dei Conti – ha versato all’Ue 17 miliardi di euro, +23%, contro i 10,1 ricevuti; nel periodo 2012-2018 c’è stato un trasferimento netto dall’Italia all’Ue pari a 36,3 miliardi) (7).
Non è ancora possibile stimare precisamente quale sarà il contributo netto che ogni paese riceverà dal RRF. Secondo uno studio pubblicato sul bollettino economico della BCE (8), l’Italia, al netto dei contributi per ripagare il debito comune, sarà su sei anni beneficiaria netta per meno del 2% del Pil.
Considerando anche i prestiti, in quanto per un’analisi macroeconomica è più corretto valutare l’impatto degli investimenti a prescindere che siano prestiti o trasferimenti diretti, l’RRF finanzierà su sei anni spese pari a circa il 9,5% del Pil sul 2019. Va considerato, tuttavia, che quando ritorneranno in essere le regole europee (il Patto di Stabilità e Crescita comunque modificato), la parte prestiti entrerà sempre nel calcolo dei saldi di finanza pubblica concordati con Bruxelles. I prestiti del RRF, quindi, non saranno scorporati, e non saranno “in più” rispetto agli obiettivi di consolidamento fiscale. Per questo motivo, dei 122,6 miliardi di euro di prestiti l’Italia ha deciso che solo 53,5 miliardi siano per nuovi progetti – i restanti finanzieranno capitoli di spesa già esistenti.
Solo per avere un paragone, basti pensare che l’amministrazione Biden sta preparando un programma di investimenti aggiuntivi pari a 4mila miliardi di dollari, e che già nel 2020 gli USA hanno risposto con un incremento fiscale discrezionale pari a circa il 25% del Pil. Lo stesso dicasi per il Regno Unito che, nel 2020, ha avuto una risposta fiscale pari oltre al 15%. Non c’è quindi da stupirsi se la previsione di crescita del FMI per il 2021 degli USA, complice anche la più veloce campagna vaccinale grazie a politiche industriali previdenti, sia pari al +6,4%, contro il +4,4% dell’Area Euro (sebbene nel 2020 il calo del Pil della Area Euro sia stato del -6,6% rispetto al -3,5% degli USA) (9).
Certo, si dirà, gli USA sono uno stato federale. L’Unione Europea ancora no. Certo, allora però andrebbe molto diminuita la valenza economica data alla misura, riducendola ad un provvedimento utile, simbolicamente significativo, ma economicamente limitato. Andrebbe inoltre concentrata l’attenzione del pubblico molto di più su come e quando le regole europee torneranno in vigore, piuttosto che rimanere troppo concentrati sul presente di questa misura. È quello il vero nodo gordiano.
Il secondo aspetto ha a che fare con le condizionalità. Infatti, come sappiamo, in Europa non c’è ancora quel senso profondo di unità politica che assicurerebbe quella fiducia essenziale per un progetto di investimento comune. Per questo, oltre alla necessità di rispettare le raccomandazioni che la Commissione Europea ha fornito all’Italia nel 2019 e nel 2020 (e nel 2019 si parla ancora di miglioramento del saldo strutturale e riduzione nominale della spesa pubblica primaria netta), il regolamento istitutivo del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (10), soprattutto all’articolo 10, inserisce una serie di casi in cui le istituzioni europee possono deliberare la sospensione dei pagamenti.
Questo aspetto, forse ora apparentemente poco rilevante, rischia di creare un irrigidimento del vincolo esterno delle politiche economiche nazionali. Potrebbe, addirittura, influenzare le stesse dinamiche elettorali, quando una forza politica vista come potenzialmente ostile potrebbe essere ostacolata dalla minaccia di sospensione dei pagamenti. Anche perché, come sappiamo, il far rispettare le regole è un esercizio che a livello europeo segue spesso una chiara ed evidente discrezionalità politica.
E se il mito crolla?
Questa ricostruzione, che doveva essere necessariamente sintetica, ci porta a delle domande semplici ma radicali: nel caso in cui questo mito non dovesse funzionare, come molti dati economici sembrano suggerire, cosa succederebbe? Cosa succederebbe se il popolo italiano non sperimentasse nelle proprie concretissime vite questa pioggia di miliardi, ma anzi un incattivimento dei rapporti tra Bruxelles e Roma? Non rischiamo che la delusione di queste aspettative porti ad un risentimento anti-europeo ancora più marcato? Non è che le classi dirigenti europee stanno semplicemente comprando tempo, il tutto a carissimo prezzo, rimandando al domani la resa dei conti che non riuscirebbero a gestire ora?
L’impressione è che ad un passaggio simbolicamente significativo, ed economicamente apprezzabile, venga dato un valore economico straordinario ed un senso simbolico epocale. Sarà così, o stiamo solamente comprando tempo, come sostiene Wolfgang Streeck (11)? Ai posteri l’ardua sentenza.
Twitter @GabrieleGuzzi
NOTE
1) Ad esempio, si veda C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, il Saggiatore, Milano 1966.
2) Ad esempio, si veda V.E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, Morcelliana, Brescia 2005.
3) U.Galimberti, La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 1984, p.65.
4) E.Laurent, Mitologie economiche, Neri Pozza, Vicenza 2017.
5) Piano nazionale di ripresa e resilienza, Italiadomani 2021
6) FMI, Fiscal Monitor Database of Country Fiscal Measures in Response to the COVID-19 Pandemic, aprile 2021. Si è calcolata la percentuale sul Pil del 2019, rispetto al 2020 che è l’anno di riferimento utilizzato dal FMI, utilizzando il Pil a prezzi correnti fornito dal FMI.
7) Corte dei conti, I rapporti finanziari con l’Unione europea e l’utilizzazione dei Fondi europei in Relazione annuale, 2019
8) A. Giovannini et al., The fiscal implications of the EU’s recovery package, ECB Economic Bulletin, Issue 6/2020.
9) FMI, World Economic Outlook, Aprile 2021.
10) Regolamento (Ue) 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021
11) W.Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013.