categoria: Distruzione creativa
Le criptovalute ricordano lo schema Ponzi, o lo chiamiamo Pippo?
Qualche anno fa un caro amico mi chiese di spiegargli quali potevano essere i rischi di investire in nuovi calcolatori per il mining di criptovalute attraverso una società che stava già svolgendo questa attività. Era stato contattato insieme al suo babbo ed altri amici e gli erano state presentati una serie di opportunità dall’investimento, rendimenti molto interessanti. Volevano però conoscere anche i rischi che andavano assumendosi. Non conoscevo la società e non avevo le competenze per esprimermi sul tipo di contratto, sul tipo di calcolatori utilizzati e sulle caratteristiche della blockchain che facevano girare. Il mio è stato solo un ragionamento in termini finanziari sull’universo delle cosiddette monete virtuali, inteso in termini generali. Loro avrebbero in buona sostanza investito euro per acquistare i calcolatori, avrebbero pagato euro periodicamente per le spese di funzionamento (elettricità e manutenzione) e come contropartita ricevevano una certa quantità di questi token minati.
All’epoca, parliamo del 2018, il controvalore delle criptovalute ricevute in ricompensa determinava un rendimento tra il 10 ed il 20%. Quel calcolo di rendimento, però, era valido solo normalizzandolo in un’unica valuta, quella dell’investimento originario. Inoltre, i flussi di cassa periodici avrebbero comportato un periodico impegno finanziario in euro, aggiuntivo all’investimento iniziale, che poteva essere in parte abbattuto rivendendo di volta in volta i token ottenuti in ricompensa.
Tutta l’impalcatura delle criptovalute si basa su questo: che ci siano “n” soggetti disponibili a investire euro, dollari, sterline o yen per processare le transazioni e pagarne i costi legati al funzionamento, e che in cambio di questo impegno finanziario siano disponibili a ricevere un certo ammontare del token processato. Cosa possono farci con questa ricompensa? Principalmente rivenderla o aspettare che cresca di valore… e quindi rivenderla. Fino a quando il token non sarà accettato abbastanza diffusamente per il pagamento delle spese di impianto, funzionamento o mantenimento dei calcolatori, ci sarà in modo strutturale una pressione alla vendita delle ricompense e, in assenza di qualcuno che ne domandi l’acquisto, il valore tenderà a zero. Sono così i nuovi entranti che contrastano la fuoriuscita strutturale e ne sostengono o aumentano il valore.
Insomma, lo schema delle monete virtuali è essenzialmente: una struttura piramidale con il token concentrato nei portafogli dei primi entranti, un rendimento prefissato e riconosciuto a chi mette a disposizione capacità di calcolo, ed alla fine la necessità di continui nuovi entranti per sostenerne il valore. Se non lo volete chiamare schema Ponzi va benissimo, possiamo anche chiamarlo Pippo, ma così è.
In questa struttura abbastanza semplice si è costruito tutto l’universo che ruota intorno: nessuna regola ed una continua innovazione di sovrastrutture di scambio e creazione di criptovalute, ma anche sempre più inefficienza energetica ed influencer a condizionarne il valore al rialzo e al ribasso. La scorsa settimana poi, la Tether Limited, la società che emette il dollaro tether, un token il cui valore è agganciato al dollaro e che viene utilizzato in quasi il 70% degli scambi di bitcoin e delle altre principali criptovalute, ha diffuso per la prima volta i dati del suo stato patrimoniale, su cosa ci sia effettivamente a garanzia del fatto che il token da essa emesso possa rimanere agganciato al dollaro.
Se una normale società di emissione di strumenti di pagamento, che sia una banca o una società di carte di credito, con uno stato patrimoniale di 60 miliardi di dollari avesse diffuso una comunicazione del tipo di quella di Tether Limited, un solo grafico a torta realizzato su excel, ci sarebbe stato da ridere. In questo caso invece è stato accolto da gran parte dell’universo virtuale come un importante segno di trasparenza. Tether non ha mai garantito l’impegno a detenere specifiche attività in dollari per equilibrare la parità del proprio token. Si parla solo di un impegno a detenere riserve per sostenere al 100% il valore del dollaro tether, ma non ci sono parametri da rispettare o vincoli di destinazione/liquidabilità dell’attivo. Da tempo, osservando l’andamento della quantità emessa di dollari tether ed il prezzo delle valute virtuali (fig.1), si specula sul fatto che la società non abbia niente a sostenerne il valore, e che invece utilizzi l’emissione dei dollari tether per pompare il valore di alcune principali criptovalute.
Certo è solo una correlazione, ma può esser fondato il dubbio che, in assenza di ogni regola e supervisione, si possa utilizzare l’emissione di dollari virtuali in modo un po’ disinvolto. Così, se non ci sono sufficienti nuovi entranti che portano dollari veri, il valore del bitcoin o di altre valute potrebbe esser sostenuto con la sola emissione di dollari tether. Se si emette ex-novo un dollaro tether e lo si usa per l’acquisto di parte di un bitcoin, attivo e passivo si compensano, 100% di riserva rimane soddisfatto.
I dati diffusi non hanno minimamente fugato questi dubbi. Solo il 2,9% dei 60 miliardi di dollari virtuali è impiegato in vera (o presunta) cassa. Il resto sono strumenti finanziari di cui non si conosce l’emittente e la tipologia. Ancora non il massimo della trasparenza. Ma questo non sembra aver convinto i più. Nonostante i forti cali degli ultimi giorni, nonostante gli alti e bassi di questi anni, l’interesse per le valute virtuali rimane importante, un interesse che attira sempre nuovi entranti e che fa in modo che il loro valore si sostenga nel tempo.
Alla fine, quel mio amico ha fatto l’investimento, non ne abbiamo più parlato, ma se ha ancora i token ricevuti in ricompensa in questi anni, è probabile che fino ad ora il rendimento sia stato del tutto vantaggioso. Gli rimarrà soltanto da decidere quando monetizzarlo e sperare che per quel momento l’uscita dallo schema non sia troppo affollata.
Twitter @francelenzi