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Debito, così export e mercato interno possono metterlo in sicurezza
L’autore di questo post è Antonino Iero, già responsabile del Centro Studi e Ricerche Economiche e Finanziarie di UnipolSai –
In un quadro di complessiva debolezza del sistema economico nazionale, ampiamente sottolineato dalla quasi totalità degli osservatori, alcuni punti di forza emergono qua e là. Vale la pena di rimarcarli, anche perché sarà proprio da questi elementi che l’Italia potrà, se ne sarà in grado, riprendere il cammino verso il progresso e, fattore non del tutto secondario, gli italiani potranno ricostituire una migliore considerazione di sé stessi. Da questo punto di vista, uno degli aspetti più interessanti da esaminare è il dato del nostro commercio con gli altri Paesi. Il grafico che segue riporta il saldo della bilancia commerciale con l’estero delle quattro principali economie dell’Unione Monetaria Europea (1).
Da quanto rappresentato, si vede il rilevante attivo nel commercio estero della Germania, attestatosi intorno ai duecento miliardi di euro annui. In questo gruppo di nazioni, l’Italia si posiziona al secondo posto, con un avanzo superiore ai cinquanta miliardi di euro. La Spagna, anch’essa in attivo, segue a ruota. Mentre la Francia, al contrario, mostra, negli ultimi quindici anni, una moderata eccedenza delle importazioni sulle esportazioni. A proposito dell’attivo della bilancia commerciale italiana, spesso capita di leggere entusiasmanti relazioni che attribuiscono tale risultato alla capacità di penetrazione dei mercati esteri da parte delle imprese italiane. Ciò è senza dubbio una parte della realtà. Tuttavia, sarebbe intellettualmente disonesto non cogliere il fattore che ha determinato “il cambio di paradigma” per il commercio estero italiano. Lo vediamo rappresentato nel grafico che segue.
Si noti come, dal 2006 al 2011 le importazioni risultino superiori (anche se spesso di poco) alle esportazioni, con andamenti sostanzialmente paralleli. La situazione cambia nel 2012, anno nel quale si registra una netta caduta delle importazioni, replicata anche nel 2013: rispettivamente 23 e 20 miliardi in meno rispetto all’anno precedente. È stata la rilevante contrazione delle importazioni a portare in attivo la bilancia commerciale dell’Italia, non tanto l’aumento delle esportazioni. Come ben noto, la forte riduzione degli acquisti dall’estero, registrata nel biennio 2012- 2013, va collegata alla politica di austerità perseguita dall’esecutivo Monti, subentrato al governo Berlusconi alla fine del 2011. Infatti, la caduta della domanda interna determinata dalla stretta fiscale si è riflessa, ovviamente, anche in un contenimento delle importazioni. Vi è poi stata qualche positiva ripercussione (comunque non determinante) sulle esportazioni, poiché le (poche) imprese italiane in grado di competere sui mercati internazionali sono state obbligate a rivolgersi all’estero per vendere i propri prodotti, a causa della contrazione del mercato interno. Questo periodo di forte disallineamento tra esportazioni e importazioni si è verificato anche in Spagna, mentre non ve ne è traccia né in Germania, né in Francia.
Tuttavia, l’esperienza di questi ultimi undici anni ha dimostrato come la crescita garantita dai soli mercati esteri non sia sufficiente per far ripartire il prodotto interno lordo italiano. Infatti, tra i quattro Paesi considerati, l’Italia è quello con il minor grado di internazionalizzazione dell’economia (2). L’attuale peso delle esportazioni italiane sul PIL è troppo basso per essere sufficiente ad innescare lo sviluppo economico nazionale. Quindi, le strade per la ripresa economica sono (teoricamente) due: la prima, che richiede tempo per generare cospicui frutti, consiste nel dare il via ad una sistematica trasformazione dell’apparato produttivo, incentivando lo sviluppo di imprese che, per settore d’attività e per dimensione, siano in grado di competere sui mercati internazionali, permettendo così una rilevante crescita delle esportazioni; la seconda, con ritorni in tempi più brevi, prevede di puntare sulla crescita del mercato interno, rinunciando così all’avanzo nei conti con il resto del mondo. Naturalmente, tra questi due estremi, vi sono infinite combinazioni intermedie.
Tuttavia, nella scelta di come bilanciare una politica economica volta a perseguire il ritorno allo sviluppo, occorrere considerare un ulteriore elemento: per l’Italia, un attivo nei confronti dell’estero è necessario alla luce dell’elevata dimensione del debito pubblico. Infatti, poiché il debito dello Stato deve essere collocato sui mercati finanziari internazionali, un significativo e costante avanzo della bilancia commerciale (e, più in generale, delle Partite Correnti) rappresenta una sorta di garanzia sulla capacità della nazione di far fronte al debito accumulato verso gli investitori esteri.
Più precisamente, uno dei dati che viene preso in considerazione per valutare la sostenibilità del debito sovrano è la posizione netta sull’estero (3) della nazione. E qui, vi sono alcune interessanti novità, che rappresentiamo, al solito, attraverso il confronto tra le quattro principali economie europee.
Si noti come, alla fine del 2020, l’Italia evidenzi una posizione netta sull’estero in leggero attivo (oltre trenta miliardi di euro). Non sono molte le nazioni che possono vantare una posizione netta sull’estero in pareggio o, meglio ancora, attiva. In sostanza, a dicembre 2020, il nostro Paese non aveva più debito estero e, se si mantenesse un saldo commerciale attivo, nel prossimo futuro l’Italia avrebbe la possibilità di diventare, a tutti gli effetti, un Paese creditore nei confronti del resto del mondo. Questo sarebbe un cambiamento significativo, poiché, in un certo senso, renderebbe il debito pubblico italiano una questione interna tra Stato e cittadini italiani (una condizione simile, anche se in contesti assai diversi, a quella del Giappone, anch’esso oberato da un elevato debito pubblico). In sostanza, l’attivo commerciale sta progressivamente “mettendo in sicurezza” il debito pubblico (4).
Questo nulla toglie all’urgenza di tenere sotto controllo i conti dello Stato. Però indica con chiarezza l’opportunità di mantenere anche in futuro un saldo attivo nei conti con l’estero. Magari attraverso una strategia meno “patologica” di quella attuata negli anni dell’austerità, quando la riduzione della domanda interna ha determinato la flessione delle importazioni. Infatti, sarebbe meglio puntare ad aumentare fisiologicamente le esportazioni. Risultato che si conseguirà, come ormai risaputo, solo attraverso una più diffusa presenza delle imprese italiane nei settori a maggiore valore aggiunto e a maggior potenziale di crescita. Accanto a questo approccio, non può comunque sfuggire l’emergenza di aumentare parallelamente la dimensione del mercato interno, poiché è proprio su quest’ultimo che la maggioranza delle imprese italiane convoglia la propria produzione. È solo con un attento bilanciamento tra queste due esigenze che sarà possibile riportare l’Italia su un sentiero di crescita economicamente sostenibile.
e-mail: toni_iero@virgilio.it
NOTE
1) I dati utilizzati in questo articolo sono di fonte Eurostat. GDP and main components (output, expenditure and income [NAMQ_10_GDP__custom_755836]; International investment position – quarterly and annual data (BPM6) [BOP_IIP6_Q__custom_755712]
2) Classicamente, il principale indice del grado di internazionalizzazione di un sistema economico è dato dal rapporto tra la somma dei valori assoluti di esportazioni ed importazioni e il prodotto interno lordo.
3) La posizione netta sull’estero (anche nota con l’acronimo inglese NIIP da Net International Investment Position) è la differenza tra le attività e le passività finanziarie esterne di un Paese. Il debito estero di un Paese include il debito pubblico e il debito privato. Nel calcolo della NIIP vengono prese in considerazione anche le attività esterne detenute pubblicamente e privatamente dai residenti legali di un Paese.
4) A tal proposito, si veda, a pagina 44: IMF, ITALY 2020 Article IV Consultation, marzo 2020.