categoria: Vicolo corto
Crisi, un termine usato spesso a sproposito (soprattutto sui media)
Le parole fanno anche paura. Anche? Sì, anche, cioè unitamente al mistero che recano in sé: continuamente e proprio quando sembra che siano chiare e ben collocate nell’uso che i parlanti ne fanno. Alcune di esse fanno più paura di quanto possiamo immaginare, specie se scelte con leggerezza e, in particolare, con riferimento alla vita economica di un paese; provocano, sulle prime, un effetto risonanza e, nel tempo, un effetto anestetico: tutti finiscono coll’adottarle liberamente e in modo pervasivo, senza tuttavia conoscerne il vero significato. In verità, il termine “significato” è inadeguato; è opportuno parlare di “senso”, cioè del valore che una parola assume in un determinato contesto e in relazione con altre parole.
Se consultiamo i dizionari, a proposito del lemma “crisi”, troviamo una comune definizione: “improvviso passaggio dalla prosperità alla depressione”. Le sfere semantiche prevalenti, in realtà, sono due, quella economica e quella medicale, sebbene, nel caso in specie, ci occuperemo delle condizioni macroeconomiche a causa delle quali i cittadini riconoscono lo stato di difficoltà, emergenza e, a un certo punto, di recessione. Perché si dice “crisi” con tanta enfasi e, talora, non senza superficialità, come se si trattasse di un espediente linguistico universale? Sappiamo, per consuetudine, che una crisi si caratterizza per il calo dell’occupazione, l’eccesso di offerta, con conseguente difficile allocazione e inevitabile riduzione dei consumi, per i tassi svantaggiosi con cui uno Stato colloca i propri titoli, risultando, per così dire, diffidato et cetera. La più nota tra le crisi della storia, la crisi per antonomasia, è senza dubbio quella del 1929, anno in cui crollò Wall Street. Da quella grande crisi, infatti, si giunse a una recessione che durò non meno di un decennio.
“Crisi” e “recessione” possono, sì, sovrapporsi l’una all’altra, ma non sono la stessa cosa. Possiamo affermare, in prima istanza, che, dopo due mesi di crisi, si ha la recessione. Più correttamente: quando, per due trimestri consecutivi, si registra una variazione congiunturale negativa del Prodotto Interno Lordo, cioè una riduzione del valore di beni e servizi, allora si può parlare di recessione. L’immagine mentale che dobbiamo cominciare a costruire per comprendere appieno senso e significato di “crisi” è quella del passaggio di stato, del brusco mutamento, dell’alterazione imprevista di alcune condizioni, non quella di un quadro logico di privazione, che, invece, ci rinvia direttamente a “recessione” o, diversamente, a “depressione”. Di conseguenza, sarebbe appena il caso di rivedere la comune opinione secondo cui una crisi è inquadrata e definita coi parametri summenzionati.
Da un punto di vista filologico e semantico, non si fa fatica a sconfessare i media. Anzi, si fa presto, benché, com’è noto, una lingua si strutturi anche in diatopia, diastratia, diafasia, e diamesia, cioè, rispettivamente, secondo uno spazio e un codice sociali, secondo gruppi e relazioni sociali, all’interno di contesti comunicativi specifici e attraverso un canale. Pertanto, molto di frequente, i significati originari vengono abbandonati a vantaggio di acquisizioni ‘relazionali’. Il lettore che non ha dimestichezza con greco, latino e radici indoeuropee, tuttavia, sarà sorpreso nello scoprire che kρίσις (krìsis), derivando da kρίνω (krìno), come ci fa notare Chantraine (1968, pp. 584-585), in origine, non aveva affatto il significato che oggi siamo soliti attribuire a essa. Il verbo greco κρίνειν (krìnein), pur non escludendo il significato di vagliare, aveva principalmente quello di separare, in virtù della propria radice, ed era connesso con la trebbiatura. In pratica, indicava l’attività di separare la granella del frumento dalla paglia e dalla pula; poi, per traslazione, il lemma è passato nell’atto dello scegliere. La crisi, dunque, contiene in sé una scelta fatta dopo una separazione, un taglio. Non è escluso, infatti, che l’accezione negativa sia stata dedotta proprio dalla necessità di separare qualcosa da qualcos’altro, tagliare, per l’appunto, ed essere costretti a una rinuncia.
Già nell’Iliade, troviamo un’occorrenza ‘paradigmatica’ e che ci permette di studiare la corrispondenza tra quanto ha scritto Chantraine e la letteratura.
ὡς δ’ ἄνεμος ἄχνας φορέει ἱερὰς κατ’ ἀλωὰς / ἀνδρῶν λικμώντων, ὅτε τε ξανθὴ Δημήτηρ / κρίνῃ ἐπειγομένων ἀνέμων καρπόν τε καὶ ἄχνας, / αἳ δ’ ὑπολευκαίνονται ἀχυρμιαί· [hos d’ànemos àchnas phorèei ieràs kat’aloàs / andròn likmònton, òte te xanthè / krìne epeigomènon anèmon karpòn te kai àchnas, / hai d’hypoleukàinontai achyrmiai: come il vento sull’aia sacra porta via la pula / quando si ventila il grano, allorché la bionda Demetra / al soffio dei venti separa il chicco e la pula / e ne biancheggiano i mucchi (OMERO, Iliade, l-V, vv. 499-502, a cura di G. Cerri, 2000, Fabbri, Milano, pp. 342-343)]
Di qui, la semantica del sostantivo kρίσις (krìsis) fu ampliata ed è comprensibile, a questo punto, che Tucidide, nelle Storie, ricorra al significato di “soluzione”.
Τῶν δὲ πρότερον ἔργων μέγιστον ἐπράχθη τὸ Μηδικόν, καὶ τοῦτο ὅμως δυοῖν ναυμαχίαιν καὶ πεζομαχίαιν ταχεῖαν τὴν κρίσιν ἔσχεν [ton de pròteron èrgon mèghiston epàchthe to Medikòn, kai toùto hòmos duoin naumachìain kai pezomachìain tachèian ten krìsin èschen: degli avvenimenti anteriori il più grande fu la guerra coi Medi, ma pure questa ebbe una rapida soluzione, con due battaglie per terra e per mare (TUCIDIDE, Storie, I-I, XXIII, a cura di F. Ferreri, 2001, Fabbri, Milano, pp. 44-45)]
Aristotele, invece, ci rende un’efficace testimonianza del passaggio all’ambito medico-specialistico.
Αἱ δὲ μεταβολαὶ γίνονται τοῖς πλείστοις κατὰ τριήμερον ἢ τετραήμερον, ὥσπερ καὶ αἱ τῶν νόσων συμβαίνουσι κρίσεις [Hai de metabolài ghìnontai tois plèistois katà trièmeron he tetraèmeron, hòsper kai hai ton nòson symbàinousi krìseis: Le metamorfosi avvengono di solito al terzo o al quarto giorno, secondo la stessa cadenza della crisi delle malattie (ARISTOTELE, Ricerche sugli animali, in La vita, l-V, 553a 11, a cura di D. Lanza e M. Vegetti, 2018, Bompiani, Milano, pp. 462-463)]
Non si può fare a meno documentare, quindi, che, tutto sommato, pure nel volgere di pochi secoli, ci sia stato uno slittamento semantico verso il dominio di mutamento, passaggio, accesso e, di conseguenza, scelta o giudizio. Tale slittamento si è completato nella lingua latina, tanto che dizionari come il Castiglioni-Mariotti, il Campanini-Carboni, il Calonghi et al., con riferimento a crĭsis, attestano i significati di giudizio critico o periodo critico, mentre, nelle Ad Lucilum epistulae morales, Seneca offre un valore nettamente negativo, prossimo a quello attuale, scrivendo “Hic quidem ait nos eandem crisin habere, quia utrique dentes cadunt [Egli dice che noi attraversiamo la stessa crisi, perché a entrambi cadono i denti (vol II, 83, 4, trad. nostra)].
Provando a esporre il lavoro fatto finora in forma di riepilogo, possiamo ipotizzare che dall’atto del separare e del tagliare si sia giunti rapidamente al concetto di improvviso mutamento o passaggio, imponendo al soggetto la rinuncia a qualcosa e, di conseguenza, la scelta, la soluzione. Di qui, “crisi” ha subito una traslazione ‘radicale’ che, nell’immagine mentale di ciascuno di noi, ha corrisposto all’idea di disagio. Altrimenti, non sarebbero giustificate le espressioni “crisi di pianto”, “crisi di nervi” et similia. Con un po’ di educazione linguistica, dovremmo imparare a rimodulare l’uso di “crisi” in materia d’economia, giacché appare, così, del tutto incongruente. Se “crisi” dev’essere, come leggiamo nei dizionari, il passaggio da una condizione di prosperità a una di depressione e tale passaggio dev’essere brusco e traumatico, il concetto di durata allora è una cattiva interpretazione. Sappiamo per certo che un uso esteso e, per così dire, popolare di un termine, quale che sia, ne implica l’efficacia e la valenza sociolinguistiche, ma non possiamo trascurare, nello stesso tempo, che un autore ineccepibile come il Battaglia, nel GDLI, nella terza e nella quarta accezione del lemma in questione, fornisce le seguenti descrizioni: (3) profonda perturbazione nell’esistenza di una persona, che produce effetti più o meno gravi e dolorosi, incidendo sull’intera condotta morale e concezione delle cose; (4) turbamento vasto e profondo nella vita di una collettività, di un gruppo, di una società, di uno Stato (e anche nella vicenda delle attività spirituali: arte, letteratura, ecc.); momento difficile e decisivo, che preannuncia e determina mutamenti, trasformazioni ingenti
Nel tentativo di ricostruire correttamente il valore d’una crisi economica, abbiamo il dovere di mettere in evidenza almeno tre termini proposti dal Battaglia: “turbamento”, “perturbazione” e “momento”. In particolare, “momento”, se associato con “perturbazione” e “turbamento” ci indica una breve frazione di tempo in cui si ha un violento sconvolgimento dell’esistenza. In una testimonianza letteraria della Vita di Sant’Ignazio, questo aspetto si coglie chiaramente:
Dipoi ne seguì una salutevole crisi, che gli portò fuor del cuore quanto v’avea di terra e di mondo (BARTOLI, D., 1851, Vita di S. Ignazio, in Opere, L, II, Leonardo Ciardetti, Firenze, p. 21)
Nel momento in cui il momento e il disagio o lo sconvolgimento diventano oggetto di una statistica o di un rilievo econometrico, la crisi si muta in qualcos’altro, o in una recessione o, nel medio-lungo termine, in una depressione. Quest’ultima, in particolare, richiede almeno un anno di grave riduzione del PIL. Come spesso accade, alcuni potrebbero fare delle obiezioni sostenendo che le nostre sono sottigliezze. A loro rispondiamo dicendo che il valore di una lingua, il più delle volte, si trova proprio nelle sfumature e nei tratti; e, se l’economia è spesso bistrattata, ciò è dovuto alla superficialità con cui certe differenze vengono tralasciate. La rieducazione linguistico-economica è, oggi, una priorità perché una virgola cambia la vita.
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