categoria: Vicolo corto
Dove ha fallito lo smart working e cosa si rischia facendo marcia indietro
Post di Elisabetta Calise, HR business partner. Avvocato. Fa parte del board esecutivo della Scuola di Politiche –
Google, Amazon, Twitter, Ibm e Microsoft hanno annunciato di voler fare marcia indietro sullo smart working. Non sorprende che i colossi del web della Silicon Valley, dopo un anno di home working, stiano pensando alle contromisure, ben suffragati da evidenze sia scientifiche, su quanto la capacità di innovare si nutra di presenza, che empiriche, relative alla tangibile frustrazione di portare in videocall il sistema familiare di abitudini, rumori, richieste. Dinanzi a queste argomentazioni coglie nel segno chi dice che “tutto il dibattito sul digitale è dominato dalle distopie, senza un’idea positiva”.
L’assunto di partenza è che lo smart working non era stato concepito come una panacea per limitare le possibilità di contagio e al contempo evitare il completo blocco delle attività produttive nel pieno di una pandemia. E però, come spesso accade al diritto, che perciò viene definito “vivente”, la ratio della L. 81 del 2017 – così come delle sue omonime intra e extra UE – si è ben prestata allo spirito del tempo.
Non sbagliano quelli che definiscono tutt’altro che agile lo smart working nell’anno della stasi forzata e degli equilibri sovvertiti. Poteva essere realmente flessibile un lavoro costretto tra le mura domestiche, dilatato in un tempo dov’era consentito far poche altre cose, privato per ovvi motivi di un’adeguata preparazione culturale e strumentale?
Questo modello ha probabilmente tenuto nelle grandi imprese, molto meno nelle PMI – non del tutto pronte sul fronte IoT, big data e analytics, per citare solo alcuni degli aspetti essenziali alla business continuity –, quasi per nulla nei comparti di logistica e distribuzione, filiera agricola e alimentare, non ancora efficacemente inseriti in sistemi di industrial smart working, nelle due forme del remote monitoring e della remote execution.
L’effetto rebound, in medicina, è l’inasprimento di una condizione patologica che si verifica alla sospensione brusca di un farmaco.
La lingua plasma la realtà, e viceversa: onlife e phygital sono i neologismi che ci è dato interiorizzare per non disperdere nessun grammo del capitalismo immateriale faticosamente plasmato in questo anno. Perché se la prima presa di coscienza è che non abbiamo vissuto il migliore dei mondi possibili, la seconda – non in ordine di importanza – è che non si può negare che analogico e digitale, persone e tecnologie, spazi, ambiente siano stati travolti dal cambiamento. Il concetto stesso di “normalità” si sta trasformando e parlare di un “ritorno al pre” potrebbe essere di per sé antistorico e causare l’effetto rebound di cui sopra.
Ai policy makers tocca ora cucire gli strappi visibili, correggere la crescente polarizzazione del mercato del lavoro tra lavoratori protetti e perdenti della digitalizzazione, ripensare il sistema di welfare in una logica predittiva e premiale più che assistenziale, favorire una benefica integrazione tra le politiche di innovazione, istruzione e lavoro.
L’auspicio è che la trasformazione del mercato del lavoro, di cui lo smart working è evidentemente solo un tassello, sia volano e non ostacolo.
Tornare a popolare gli uffici cinque giorni su cinque per raddrizzare le storture dell’home working suona un po’ come scegliere ali di cera, le stesse che Icaro voleva ingenuamente usare per volare verso il sole.
Twitter @Eli_Calise