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La rivoluzione blu e i miliardi dell’Ue, ennesimo treno da non perdere
La crescita della popolazione mondiale non sembra destinata a fermarsi nei prossimi anni. Le Nazioni Unite stimano che per il 2050 ci saranno 9,7 miliardi di abitanti sul pianeta, una crescita di 2,1 miliardi rispetto ad oggi. Questo aumento porterà inevitabilmente ulteriore pressione sulle risorse alimentari disponibili.
La Food and Agricolture Organization (FAO) delle Nazioni Unite stima che la domanda di prodotti animali aumenterà del 70% entro il 2050. A preoccupare maggiormente è l’aumento atteso della richiesta di proteine, trainata dalla crescita della classe media (l’OECD stima che per il 2030 raggiungerà i 5,3 miliardi) e dal contestuale cambio nella dieta.
Numeri alla mano, la situazione sembra drastica: con i sistemi attuali di allevamento non sarà possibile soddisfare queste cifre senza rischiare un collasso dell’intero sistema produttivo.
Ci aspetta dunque un futuro da vegani o con grandi quantità di insetti nelle nostre diete? Sembra poco probabile. Che si voglia o meno, per ancora tanto tempo la gente vorrà continuare a mangiare la carne. È necessario dunque trovare una strada alternativa a quelle utilizzate fino ad ora, per vincere una delle più importanti sfide del XXI secolo: scongiurare una crisi alimentare globale.
La risposta a questo problema sembra arrivare dal pesce. Per millenni, l’uomo ha potuto godere di questa importante risorsa, uno degli alimenti più sani e con elevato potere nutriente presenti in natura, senza che l’ecosistema fosse messo in pericolo.
Negli ultimi tempi la situazione è tuttavia cambiata. L’inquinamento, i cambiamenti climatici, le pratiche di pesca illegali e la sovrapesca hanno messo in ginocchio in soli 50 anni i mari di tutto il mondo, con particolare impatto sulle specie più mangiate dall’uomo. Dal 1970 al 2000, la popolazione mondiale di salmoni è crollata del 60%. I tonni nell’atlantico hanno visto ridurre la quantità dell’80%, a fronte di un aumento delle catture negli ultimi 60 anni del 1000%. Negli ultimi 30 anni il pesce spada nel Mar Mediterraneo è diminuito del 70%.
Ed è dalla crisi dei mari che è iniziata a emergere con forza l’acquacoltura, termine con cui si indica l’allevamento di organismi acquatici e alghe. Pratica millenaria, l’acquacoltura ha iniziato a espandersi su larga scala solo a partire dagli anni ‘80. Da quel momento in poi, la crescita è stata vertiginosa, con il 2016 che ha segnato nei consumi per la prima volta nella storia il sorpasso della quantità di pesce allevato su quello pescato.
Oggi il 53% del pesce consumato viene dagli allevamenti. In 10 anni viene stimato che si raggiungerà il 62%.
Il pesce è la forma di proteina animale più efficiente sul pianeta dopo gli insetti. Basti pensare che per produrre un kg di carne bovina servono dai 7 agli 8 kg di mangime (per i suini 3 kg) e 8,000 litri di acqua. Per produrre un kg di pesce serve invece in media un kg di mangime.
L’acquacoltura sembra poter essere lo strumento con cui dare risposte al dilemma di una scelta tra sostenibilità ambientale e aumento della domanda di cibo.
Naturalmente anche in questo ambito ci sono diversi problemi. L’uso di antibiotici e pesticidi, le fughe dei pesci dagli allevamenti, lo svuotare le acque sporche nell’ambiente circostante e la produzione di mangimi per i pesci allevati (25% del pesce pescato è destinato a mangimi) sono stati criticati per anni, limitando lo sviluppo dell’allevamento dei pesci.
L’acquacoltura è un settore giovane, che anno dopo anno si sta perfezionando. Il progresso tecnologico e i crescenti investimenti stanno permettendo di sviluppare soluzioni che possano superare queste barriere, consentendo di allevare il pesce in maniera sostenibile per l’ecosistema e l’ambiente.
L’Europa e in particolare l’Italia devono seguire con particolare interesse questo trend.
Con 7900 km di coste, l’Italia è seconda solo alla Grecia per superficie che si affaccia sul Mar Mediterraneo. Nonostante ciò, l’Italia è uno dei fanalini di coda per quanto riguarda la capacità di soddisfare con il proprio settore della pesca la domanda interna. Oggi, 8 pesci su 10 di quelli consumati in Italia vengono dall’estero. Un dato poco confortante per i consumatori, destinato a peggiorare ancora (+83% la quota di import rispetto al 1993). Il graduale abbandono dei pescatori (-16% negli ultimi 10 anni), la riduzione del pesce pescato (-50% negli ultimi 30 anni) e la diminuzione del numero di pescherecci (-40% degli ultimi 30 anni) sono specchio della crisi del settore della pesca italiano.
L’acquacoltura può essere una risposta a questo problema. Attualmente il 40% del pesce prodotto in Italia viene da questo settore (140 mila tonnellate), per un business che vale 400 milioni di euro e che dà lavoro a 7000 persone. Numeri importanti, ma ancora troppo bassi se paragonati con altri paesi europei (Spagna 347 mila tonnellate, Francia 185 mila tonnellate, Norvegia 1400 mila tonnellate).
Il grande potenziale offerto dalle coste del Mar Mediterraneo in termini di spazio e il contemporaneo drastico impoverimento dei bacini di questo mare per quanto riguarda i pesci offerti per la pesca hanno spinto l’Unione Europea a muovere fondi importanti per lo sviluppo del settore dell’acquacoltura. Nel dicembre 2020 è stato raggiunto un accordo informale sulla modalità di allocazione dei 6,1 miliardi di euro stanziati per il periodo 2021-2027 nel Fondo europeo per gli affari marittimi, la pesca e l’acquacoltura (FEAMPA).
Con il 2021 inizia un periodo decisivo per l’acquacoltura in Europa e in Italia. Sarà fondamentale non perdere questo treno. L’obiettivo deve essere quello di riportare sulle tavole il pesce prodotto in Italia, facendo tesoro dei mari e della gente di mare che vive in Italia.
Lorenzo Marchetti