categoria: Vicolo corto
Smart working e geografia del lavoro nell’economia della conoscenza
Post di Fabio Migliorini. Fabio lavora in ambito tech a Berlino e si occupa di analisi di dati digitali; correntemente ricopre il ruolo di Lead Product Analyst per HelloFresh –
Il dibattito sulla trasformazione di modalità, spazi e tempi del lavoro si è acceso dopo la virata verso lo “smart working” imposta dalla pandemia. Troppo spesso però il dibattito italiano si è arroccato sulla questione “south-working” (cioè la possibilità di rilanciare il Sud Italia grazie al lavoro da remoto) opposto all’egemonia economica delle città (leggi Milano).
Sono anche quelli temi importanti ma per capire le opportunità ed i rischi che questa trasformazione ci presenta occorre guardare alle dinamiche di fondo dell’economia della conoscenza ed ai dati che abbiamo a disposizione. Siamo riusciti a passare dallo 0.08% di lavoratori dipendenti abituati al telelavoro a circa 8 milioni di lavoratori[1] (circa il 36% degli occupati[2]) in modalità remota ad Aprile.
Si tratta di un fenomeno complesso, e vorrei evidenziare alcuni aspetti che non sono stati finora al centro del dibattito.
1. Abbiamo sfruttato una capacità inutilizzata di telelavoro
Le economie più avanzate hanno beneficiato nella pandemia di una capacità non utilizzata di telelavoro che ha permesso la continuazione di alcune attività durante il lockdown.
2. La presenza fisica ha un ruolo anche nell’economia della conoscenza
Dobbiamo chiederci però perché in periodo pre-COVID quella capacità non era sfruttata a pieno. Oltre le componenti culturali ed organizzative bisogna anche considerare quanto la prossimità fisica abbia giocato un ruolo centrale nell’economia della conoscenza.
3. La permanenza del telelavoro è un trade-off tra spinte opposte
Possiamo quindi immaginare che il vero limite per la diffusione del telelavoro non è tanto la possibilità di fare a meno della presenza fisica, quanto il suo costo-opportunità in termini di minori costi per datore e lavoratore ed il trade-off in termini di qualità dei risultati e possibilità di innovare.
Andiamo più nel dettaglio dei punti precedenti.
La capacità di telelavoro delle nostre economie
Prendiamo come punto di riferimento il mondo pre-pandemia, un mondo nel quale i lavoratori dipendenti che usavano la propria abitazione come luogo di lavoro erano una sparuta minoranza. Nel 2018 in Europa solo il 3%[3] dei dipendenti lavorava da casa su base regolare.
Il dato disaggregato della prevalenza di lavoro da remoto per paese mostra un quadro molto variegato dove l’Italia era uno dei fanalini di coda.
Stime basate sulla possibilità di svolgere una determinata occupazione da remoto indicavano come le nostre economie disponessero di un capitale di telelavoro inutilizzato. In breve sebbene avessimo la capacità e la tecnologia per “remotizzare” fino al 35% dei lavori decidevamo di non farlo. Vale la pena chiedersi perché.
Il ruolo della presenza fisica nell’economia della conoscenza
Al di là di una componente di inerzia di processi già stabiliti (il “si è sempre fatto così”) esistono ragioni di ordine economico. L’economista Enrico Moretti[4] coniò l’espressione “nuova geografia del lavoro” per descrivere il processo di concentrazione di attività ad alto valore aggiunto in grandi metropoli con l’affermarsi della economia della conoscenza ed il conseguente impoverimento dei centri a trazione manifatturiera, sempre meno “centri” e sempre più periferia.
Questo processo è spinto e sostenuto da “forze di agglomerazione” che permettono un vantaggio competitivo alle metropoli che abbiano un mercato del lavoro sufficientemente “denso”, servizi specializzati diffusi ed accessibili, la possibilità di godere di effetti diffusivi del sapere (“spillover del sapere”).
La trasmissione di conoscenza e lo scambio di idee è il punto centrale. Infatti sebbene sia possibile, ancorché con delle notevoli imperfezioni, immaginare un mondo in cui il mercato del lavoro e dei servizi siano al contempo globali e digitali, lo stesso non si può dire della scambio di idee e conoscenza.
Non che ci manchino i mezzi per comunicare, ma chi di noi non ha mai trovato in qualche maniera mancante la comunicazione a mezzo video call, per non parlare poi di della comunicazione via email o messaggi istantanei.
C’è un risvolto economico a questa carenza, ed è la possibilità di poter sfruttare appieno le nostre capacità innovative e la nostra creatività. L’innovazione è raramente l’illuminazione romantica di un attimo, ma un lungo processo sostenuto anche dal confronto con gli altri che siano fonte di ispirazione o di critica, e talvolta anche da incontri e conversazioni casuali.
Uno studio[5] prova addirittura a quantificare quanto incontri non programmati (in inglese definiti con il termine serendipitous che accorpa casualità e piacevolezza) tra impiegati in aziende innovative favoriscano il processo di innovazione, trovando infatti una correlazione positiva tra la probabilità di questi incontri ed il numero di brevetti.
Di fatto questa relazione anche se difficile da quantificare è conosciuta da molto tempo ed è forse meglio riassunta da Edward Glaeser: “La possibilità di incontrarsi permessa dalle città sono la materia del progresso umano”.
Questa spinta centripeta ha anche trasformato i mercati del lavoro Europei. Un recente report di McKinsey[6] mostra come la creazione di nuovi posti lavoro 2007-2018 sia stata altamente concentrata su due assi:
* Geografico: Le regioni più dinamiche che hanno creato il 35% dei nuovi posti di lavoro contano solo il 20% della popolazione.
* Settoriale: 48 “growth hubs” (su più di mille regioni) sono il luogo di lavoro dell’83% dei laureati in materie STEM. Ed anche altre indicatori come la presenza di start-up innovative mostrano una simile concentrazione.
La permanenza del telelavoro come trade-off tra spinte opposte
In conclusione, seppure molti di noi e molte organizzazioni abbiano gioco-forza imparato molto su strumenti e processi del lavoro a distanza, non è detto che la spinta centrifuga della riduzione dei costi (riduzione di pendolarismo, uffici) sia più forte della spinta centripeta della geografia del lavoro nell’economia della conoscenza.
Anche se abbiamo nostro malgrado seguito un corso intensivo e prolungato di lavoro a distanza questo non azzera le forze di agglomerazione che hanno accompagnato lo sviluppo della economia della conoscenza. Scenari quindi che vedono le metropoli svuotate e i piccoli borghi rinascere solo in virtù delle competenze acquisite nel collaborare a distanza sono a dir poco azzardati anche se prendono le mosse da alcuni dati di fatto.
Una troppo facile previsione è quella di immaginare un punto di equilibrio che possa bilanciare queste forze, una soluzione ibrida che permetta di trovare un optimum tra performances e riduzione dei costi (nella versione più semplice si lavora un po’ da casa un po’ in ufficio).
Anche in questo caso però non bisogna essere troppo svelti nell’immaginare una soluzione salomonica in cui impiegati ed aziende si dividono i risparmi conseguenti da una decentralizzazione del lavoro.
Infatti oltre ad aver favorito tecniche e processi di lavoro da remoto la pandemia ha anche dato ulteriori incentivi all’automazione (un buon esempio pratico sono i cosiddetti RPA, robotic process automation) e all’offshoring di lavoro intellettuale [7] (una volta sganciato il lavoro intellettuale dalla presenza in loco potrebbe diventare interamente globale). Innovazioni che potrebbero entrare presto nella nostra quotidianità lavorativa creando ulteriori cambiamenti e presentando opportunità che potremmo sfruttare se saremo pronti e consapevoli, altrimenti una volta di più dovremo rincorrere.
Twitter @FabioMigliorin7
NOTE
[1] Test di massa per passare da lavoro remoto a smart
[2] ISTAT, Rapporto Annuale 2020 La situazione del Paese
[3] Anche i grafici seguenti provengono da Sostero M., Milasi S., Hurley J., Fernández-Macías E., Bisello M., Teleworkability and the COVID-19 crisis: a new digital divide?, Seville: European Commission, 2020, JRC121193.
[4] Enrico Moretti, La nuova Geografia del lavoro, Mondadori, 2014
[5] Si tratta di uno studio non ancora pubblicato: Atkin,Chen, Popov,The Returns to Serendipity: Knowledge Spillovers in Silicon Valley
[6] McKinsey Global Institute, The future of work in Europe: Automation, workforce transitions, and the shifting geography of employment
[7] Questi temi sono discussi nel libro di Richard Baldwin, The Globotics Upheaval: Globalisation, Robotics and the Future of Work ed in un dialogo organizzato da Associazione Copernicani