categoria: Vicolo corto
Recovery Plan, vaccino, lavoro: meglio non affidarsi al mago di Oz
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Prendiamo in esame tre discussioni di questi giorni. La prima, sulla destinazione dei fondi del Recovery Plan; la seconda, sull’obbligatorietà del vaccino; la terza, sul destino di imprese e lavoratori dopo la fine dei sussidi. Occupano uno spazio sui media che, curiosamente (o forse no), è inversamente proporzionale all’urgenza con cui dovremo affrontarle. Un po’ come discutere di come rinnovare la casa mentre sta per divampare un incendio.
Ma non è l’unica stranezza. Perché molte soluzioni sono già note, solo che ci ostiniamo a voler reinventare la ruota. Anzi, a ben pensarci, a voler reinventare pali che rotolano.
Andiamo per ordine.
Recovery Plan
Che la salivazione della classe politica aumentasse con l’avvicinarsi al monte della cuccagna del Recovery Plan era inevitabile. Ma mentre prima sembravano tutti convinti che il ‘come’ fosse più importante del ‘cosa’ e del ‘dove’, improvvisamente le priorità si sono invertite. Perché? Una prima ipotesi è che discutere del ‘come’ prima del ‘cosa’ e del ‘dove’ complica la spartizione del malloppo. Però il nostro paese è anche uno dei più negati a spendere i fondi europei, con una media del 30 per cento di assorbimento a fronte di una media europea del 40 per cento. Dunque, spendendone di più potremmo soddisfare gli ‘appetiti’ della classe politica molto meglio che discutendo della loro allocazione. C’è però una seconda e più assorbente ragione per discuterne lo stesso: è più facile sputare sentenze e slogan parlando di allocazione dei fondi, piuttosto che di come migliorarne i processi. La strumentalità di questa discussione è resa ancor più evidente dal fatto che gran parte dei fondi è già vincolata agli obiettivi indicati dall’Unione Europea: dei 750 miliardi del piano Next Generation EU, 675 sono legati alla Recovery and Resilience Facility, che sua volta stabilisce percentuali minime di spesa per ogni missione, fra cui in primis l’European Green Deal e la transizione digitale.
Alcuni argomenti di discussione sono poi, oltre che strumentali, perfino ridicoli: lamentarsi della scarsità dei fondi allocati ai giovani è come dire che i giovani sono esclusi dalle altre partite, quando è vero il contrario. Se ci sono settori vocati ai giovani sono proprio quelli della sostenibilità ambientale e della transizione digitale. Ma, tant’è, per elemosinare un po’ di consenso fra i giovani non si esita a descriverli come categorie da ‘proteggere’, come i panda e le foche monache. Forse anche perché nel lavoro si proteggono prevalentemente i vecchi, fingendo di dimenticare che è questa un’anomalia dei rapporti di lavoro nel nostro paese, non la mancanza di tutele per i giovani. Il futuro dei giovani dipende, semmai, dalla capacità di smarcarli dalla cultura assistenziale e paternalistica che zavorra l’economia, più che dalla loro tutela astratta in un paese reale che perde sempre più colpi.
Un’ulteriore ragione per discutere di ‘come’ più che di ‘cosa’ e ‘dove’ dipende dal fatto che non si può sapere in anticipo quali saranno gli investimenti più fruttuosi. “È difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”, ci ricordano ironicamente autorevoli economisti. Per questo è meglio adottare metodi di allocazione che tengano conto anche dei risultati, come ho già sostenuto in un mio contributo recente su Micromega.
Lo spettacolo dell’ennesimo teatrino e banchetto all’italiana non è certo una sorpresa, ma fa più male assistervi in questa situazione, che imporrebbe serietà più che gravità, per usare le parole di Flaiano. Macron ha già detto che la Francia non intende proporre soluzioni all’italiana. Come dire che stiamo perdendo un’altra occasione per non apparire ridicoli agli occhi dell’Europa e del mondo.
Obbligatorietà del vaccino
Che molti siano ancora incerti sul vaccino era prevedibile. Le rassicurazioni delle istituzioni e dei media rischiano tuttavia di finire in un guazzabuglio di verità alternative, come quelle snocciolate dai virologi nei salotti. Forse era meglio evitare di sperticarsi genericamente e prematuramente sulla sicurezza del vaccino, ancor meno di apostrofare i dubbiosi come “quisque de no-vax”. Senza contare che dire che un farmaco è sicuro ‘scientificamente’ è come dire che è sicuro fino a prova contraria, dato che ogni verità scientifica è per sua natura ‘falsificabile’. Nessun farmaco, poi, è totalmente privo di effetti collaterali: il foglio delle avvertenze ha la funzione di ricordarcelo. È interessante notare come nel gergo medico prenda il nome di “bugiardino”, quasi a voler rimarcare che gli effetti di un farmaco non raccontano mai tutta la “verità”. A chi poi invoca il supremo rigore dei test europei e statunitensi basterebbe ricordare che in questi paesi la durata media dei test è di sette anni, mentre per il vaccino gli anni sono magicamente diventati mesi. Non solo: molti farmaci immessi nel mercato dopo anni di test positivi sono poi stati ritirati a causa di effetti dannosi che non erano emersi nei test. Per farsene un’idea basta consultare le liste dei farmaci ritirati dal mercato da FDA ed EMA, che sono centinaia. Dunque forse sarebbe stato meglio attendere i primi risultati delle vaccinazioni volontarie, prima di rassicurare i cittadini con leggerezza.
Oltre alla leggerezza dei proclami sul vaccino, colpisce la sufficienza con cui si ignorano le misure di contenimento prese da paesi asseritamente meno ‘sviluppati’ dei nostri. Il fatto che il virus sia praticamente scomparso in Cina e in altri paesi dell’estremo oriente (incluse l’Australia e la Nuova Zelanda) è irrilevante, quasi a voler alludere alla presunta ‘barbarie’ dei loro metodi. Il Pensiero Unico Occidentale sembra sentenziare: «Se la saranno anche cavata con tre mesi di lockdown e con il tracciamento obbligatorio, ma noi non siamo autocrazie come loro e non possiamo fare così». Al tempo stesso non esitiamo a invocare l’obbligatorietà del vaccino, che pone problemi ben più rilevanti di quelli del tracciamento obbligatorio. A prescindere dal fatto che l’insuccesso del tracciamento volontario è costato e costerà milioni di morti. Quanto alla presunta maggiore efficacia e sicurezza dei nostri vaccini rispetto a quelli cinesi è ancora presto per trarre conclusioni. Resta vero, però, che se tutti avessimo adottato le misure di contenimento adottate dai ‘barbari d’oriente’ forse non ci sarebbe stato bisogno di discutere dell’obbligatorietà del vaccino.
In ogni caso non si capisce perché non si dovrebbe poter scegliere fra l’obbligatorietà del vaccino e quella del tracciamento. Può anche darsi che molti preferiscano la seconda alla prima, visto che praticamente tutti hanno già accettano il tracciamento da parte di decine di imprese tecnologiche, e per ragioni ben più futili.
Il lavoro dopo la pandemia
Questi mesi di smart working ci hanno dimostrato – ove non fosse ovvio – che molti lavori possono essere svolti da casa, ma anche che la funzione sociale del lavoro resta importante.
Oggi il futuro del lavoro sembra meno urgente del Recovery Plan e del vaccino. Eppure tutti convengono che i nuovi scenari del lavoro incominceranno a delinearsi già a partire dalla cessazione della “ventilazione” della cassa integrazione Covid-19, allo stato prevista per fine marzo 2021. Occorrerebbe dunque avere un’idea un po’ più chiara (o anche più d’una) di come affrontare il problema.
A prescindere dal baratro che molte imprese già vedono delinearsi all’orizzonte, è probabile che l’aumento fisiologico dello smart working acceleri l’erosione dei lavori meno qualificati a favore di giurisdizioni più flessibili nei rapporti di lavoro, un po’ come l’aumento dell’e-commerce ha accelerato la desertificazione degli esercizi commerciali. In paesi come il nostro ciò potrebbe implicare un ulteriore incentivo alle delocalizzazioni già registrate negli ultimi decenni.
Ultimamente alcuni commentatori si sono esaltati per l’eroismo di imprese che hanno fatto scelte di cosiddetto “reshoring”, cioè di rimpatrio di attività che a suo tempo avevano delocalizzato. La verità è che il reshoring è molto suggestivo sul piano della comunicazione, ma ha un impatto modesto, se non irrilevante, sul piano dell’economia nazionale. Anzi, al limite, attenua il senso d’urgenza di scelte che rendano il nostro sistema più attrattivo. Ancora più deprimente è la sensazione che nessuno sembra aver compreso che le nostre politiche sul lavoro (e non solo) non possano prescindere dal confronto con altri paesi, soprattutto nel contesto di un’economia manifatturiera come la nostra, dunque esposta più di altre a una concorrenza internazionale impietosa.
Gli scenari del lavoro dopo la pandemia dovrebbero idealmente imporre un ripensamento complessivo della relazione fra il settore privato e quello pubblico, liberando il primo da un compito di sicurezza sociale che può solo spettare al secondo. Al tempo stesso le politiche attive sul lavoro non dovrebbero limitarsi al reingresso dei disoccupati nel ciclo produttivo, ma estendersi al loro impiego nelle politiche di sviluppo del paese, che restituirebbe loro la dignità persa con lo stigma di un reddito assistenziale.
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Per affrontare queste discussioni bisognerebbe quindi uscire dalla camera di proiezione del Mago di Oz e sforzarsi di analizzare i problemi in modo più realistico e aderente alla realtà, come hanno proposto Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro. Si potrebbe obiettare che non esiste una realtà totalmente autonoma dalla sua narrazione. Può darsi. Ma ci sono dati da cui non si dovrebbe prescindere: da quelli sui programmi di investimento, a quelli sulle misure di contenimento della pandemia, a quelli sulle politiche attive sul lavoro.
Qualcuno potrebbe replicare che “se torturi di dati abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa”. Ma non si può ignorare il declino del nostro paese negli ultimi vent’anni. Come è difficile negare che le sue ragioni principali derivino dal corporativismo, dall’incertezza del diritto e dalla lentezza della pubblica amministrazione e della giustizia.
Riusciremo a cogliere quest’occasione? Se il buongiorno si vede dal mattino, dobbiamo preoccuparci. Soprattutto perché il bagliore di tutti i soldi del Recovery Plan finirà per accecarci dalla soluzione di problemi che non hanno un risvolto economico ma sono la vera ragione del nostro declino.