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Caccia all’unicorno o imprese familiari? Ecco la vocazione italiana
L’autore di questo post è Benedetto Buono manager nel Marketing & Innovation di un grande gruppo istituzionale che opera nei financial services –
L’Italia è un Paese di santi, poeti, navigatori e… cacciatori di unicorni… che tuttavia non troveranno mai. Secondo gli ultimi dati raccolti presentati a novembre da CB Insights, infatti, i cosiddetti “unicorni”, ovvero quelle “società private con valutazione superiore a un miliardo di dollari” sono 501, a fronte di un controvalore complessivo di quasi 1.600 miliardi di dollari: di queste, nessuna è italiana. La caccia agli unicorni, quindi, almeno nel nostro Paese, appare più una ricerca del Santo Graal, destinato a protrarsi all’infinito, senza successo. Le cause dell’assenza di unicorni nostrani sono molteplici e si possono rintracciare tanto in atavici problemi che caratterizzano il nostro scenario (es. burocrazia, limitata presenza di capitali di rischio early stage, etc.), quanto in una cultura poco avvezza al fallimento (negli States un’esperienza similare è considerata un plus nel CV ideale, se fallisci stai imparando; qui, se fallisci, hai fallito). La caccia agli unicorni, però, non è la sola “moda” che abbiamo importato dall’estero e con la quale si devono confrontare le nuove generazioni di aspiranti imprenditori: hanno preso piede anche da noi almeno ulteriori due concetti, collegati tra loro: quello di imprenditore seriale e quello di exit a tutti i costi.
Un imprenditore seriale è colui che non smette di creare startup dopo la prima di successo. LinkedIn è piena di profili che si fregiano di questa etichetta anche in Italia e, se è vero che ce ne sono diversi davvero bravi e di assoluto successo, è anche vero che una parte di questi profili non impressiona di certo per le vette imprenditoriali raggiunte. Se si va a vedere la sequenza di startup o iniziative imprenditoriali di competenza, infatti, il più delle volte non si trova alcuna traccia di una Square lanciata dopo aver fondato Twitter o di SpaceX e Tesla create dopo aver co-fondato PayPal, bensì sequenze di anonime micro-imprese che, a livello cumulato, semmai non hanno superato neppure i 100mila euro di fatturato in cinque anni. O, peggio, sono fallite o inattive e, quindi, potrebbero andare sotto il termine di “fallimento”: si è scritto poco sopra, d’altra parte, dello scarso appeal che il concetto di fallimento riveste nella comunità economico-finanziaria italiana e, alla luce di queste considerazioni, sembra naturale interrogarsi sul reale valore della fantomatica etichetta di “imprenditore seriale” utilizzata qui da noi.
La exit, invece, si può definire come la vendita delle quote della startup, da parte dei founder e dei primi investitori (Venture Capital, Business Angel o privati). Oggi, in molti acceleratori e incubatori, si tende a diffondere l’idea che il fine ultimo di chi fa startup deve essere proprio la exit, imitando modelli stranieri di grande successo. Pur comprendendo agevolmente l’aderenza di un concetto come questo ai rispettabilissimi modelli di business su cui si reggono soggetti come quelli citati (dare agli startupper piccoli capitali iniziali e altre facilities in cambio di quote societarie, anche ingenti, da rivendere in fase di exit, realizzando il classico capital gain), il rischio concreto è quello di ingenerare una esasperata corsa all’exit, che diventa così ossessione ed esclusivo fine ultimo dei nuovi imprenditori, snaturandone la natura originaria.
Forse, ci si potrebbe chiedere se, nel nostro Paese, questo tipo di approccio sia davvero il migliore possibile per chi si accinge nell’avventura imprenditoriale, semmai caratterizzata da una forte componente innovativa. A tal proposito, evidentemente, può tornare in aiuto ricordare innanzitutto un dato ampiamente noto, ovvero che le PMI in Italia sono storicamente la tipologia di imprese più diffuse a livello dimensionale e che, stando a quanto fotografato – tra gli altri – per esempio da Cerved nel Rapporto PMI 2018, “le società familiari costituiscono l’ossatura della nostra economia”. Dunque, la storia imprenditoriale italiana è contraddistinta da piccole imprese e da family business, non da unicorni. Ovviamente, tutto ciò porta con sé una serie di conseguenze negative, come le gestioni da padre-padrone dell’imprenditore, la scarsa managerializzazione e apertura a contributi gestionali esterni, il passaggio generazionale non programmato ed eventualmente gestito in base a criteri oscuri, la non diversificazione nelle fonti di finanziamento (ricorrendo semmai esclusivamente al debito bancario, con tutte le conseguenze del caso), il nanismo congenito dei relativi business e avvitamenti sul solo mercato domestico.
Dunque, come coniugare le nuove pulsioni imprenditoriali dei giovani startupper con quello che il mainstream sulle startup di fatto propone, in uno scenario come quello italiano, caratterizzato da quanto sopra? Se, fin dall’inizio, i nuovi imprenditori fanno impresa con il solo fine ultimo di vendere la stessa, come si potrà costruire una nuova generazione di imprese familiari? E questo concetto di family business, con tutti i pro e i contro che comporta, ha ancora senso in un mondo accelerato e digitale come quello che stiamo vivendo?
Si può partire dal rispondere all’ultima di queste domande: si, ha estremamente senso, se si pensa che, come ricorda l’AIDAF, anche nelle principali economie mondiali le imprese familiari rappresentano ancora il fulcro dello sviluppo economico e sociale. L’Economist, in un report del 2015, sottolineava come le imprese a controllo familiare rappresentassero più del 90% di tutte le imprese attive a livello globale. Il Global Family Business Index, prodotto dal Center for Family Business dell’Università di San Gallo in Svizzera, con il Global Family Business Center of Excellence di EY, analizza le prime 500 società a controllo familiare in tutto il mondo: i paesi più rappresentati sono Stati Uniti, Germania, Francia, Hong Kong, Svizzera e India, con l’Italia al 7° posto. Apparirebbe, pertanto, più opportuno e profittevole concentrarsi qui in Italia su startup i cui founder possano rappresentare i “capostipiti” di una nuova generazione di family business del prossimo futuro, dotati di un forte legame con il territorio di origine ma anche di un nativo mindset internazionale, che recuperino l’inventiva tutta italiana, facendo però leva sulle più moderne tecnologie digitali.
L’ossessione per le exit deve tornare ad essere un’opzione, forse non quella prioritaria nell’ottica descritta. Occorre innanzitutto recuperare una visione di lungo periodo e provare a costruire qualcosa di grande, che vada oltre una generazione.
Per evitare, poi, che le nuove imprese italiane, le nostre startup, risentano dei problemi storici già descritti (nanismo, scarsa managerializzazione, etc.) alcune leve da utilizzare potrebbero essere:
– Il ricorso a forme alternative di finanziamento, anche tramite servizi offerti dalle FinTech, come minibond, crowdfunding, smobilizzo di fatture commerciali su piattaforme digitali e direct lending
– L’inserimento, nell’organico aziendale, di figure manageriali “in affitto”, che possano portare skill e competenze altrimenti difficilmente integrabili in breve tempo. In questo senso, si sta affermando sempre più, anche qui da noi, la figura del Fractional Executive
Una nuova generazione di imprese familiari è possibile e, forse, auspicabile.
E, se saremo bravi e fortunati, potranno nascere le prossime Luxottica, Esselunga, Ferrero o Menarini.
Twitter @bennybuono