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Le ultime recessioni e il fossato sempre più profondo tra ricchi e poveri
Uno dei fenomeni economici che ha contrassegnato le cronache di questa pandemia è stata la notevole crescita dei tassi di risparmio, indotto dai vari lockdown, che si è palesato nell’aumento dei depositi bancari. Questo risparmio “forzato” è stato pressoché generalizzato, con incrementi anche sostanziali, come quelli osservati da Ocse per il caso americano.
Andamenti simili si osservano anche fra le aziende, dove primeggiano ancora una volta gli Usa.
Ciò spiega perché l’Ocse parli di “crescita senza precedenti nei depositi bancari”, che si sono comportati esattamente all’opposto di come reagirono all’epoca della grande crisi finanziaria del 2008, quando si contrassero bruscamente. Una circostanza osservata anche dal nostro Censis, nel suo ultimo rapporto sulla società italiana.
Ovviamente molti fattori hanno contribuito a determinare questo esito. Le misure di contenimento, che hanno impedito materialmente di poter effettuare molte spese. Un effetto che “dovrebbe essere temporaneo”, ossia legato alla straordinarietà dell’evento che ha creato una bolla di risparmio destinata a sgonfiarsi non appena tutte le condizioni di normalità saranno ripristinate. Lo dimostra il fatto che la crescita dei depositi abbia rallentato nei mesi successivi al lockdown, pur se rimanendo a un livello superiore a quello medio.
Le misure di contenimento, peraltro, hanno avuto l’effetto di colpire i consumi di alcuni servizi ad alto valore, utilizzati dai soggetti più dotati finanziariamente. Si pensi ai viaggi aerei internazionali, o ai servizi di ristorazione. Col risultato che questi soggetti hanno risparmiato forzatamente quote percentuali importanti del loro reddito che, essendo in media più elevato, ha finito col generare una notevole crescita dei risparmi in valore assoluto.
Fra le imprese, invece, la tendenza ad aumentare i risparmi può essere stata indotta in parte dall’aumento dei ricavi, di cui alcuni settori hanno goduto. Si pensi al settore hi tech. In parte dal fatto che molte imprese hanno cumulato risparmi precauzionali per prevenire eventuali mancanze di liquidità.
Sia famiglie che imprese hanno potuto risparmiare di più anche perché i governi hanno rilassato gli obblighi fiscali, lasciando quindi nelle loro tasche maggiore liquidità per la gestione delle emergenze.
Ma più interessante delle cause, di questo risparmio forzato, sono gli effetti che tale fenomeno può generare in futuro. Si tratta di capire cosa succederà a questo eccesso di risparmio, che, come si può osservare dal grafico sotto, risulta molto corposo.
In teoria tornando alla normalità questa eccedenza dovrebbe anch’essa normalizzarsi, finendo con l’alimentare la domanda aggregata per il tramite dell’aumento dei consumi e degli investimenti. Il grafico sopra (pannello D) mostra che l’eccesso di risparmio delle famiglie è relativamente piccolo rispetto al totale dei consumi, mentre è molto più sostanzioso rispetto al Pil. Il che, scrive Ocse, “suggerisce un impatto potenziale aggregato più grande”.
Ma purtroppo la realtà non ha mai comportamenti lineari come vorrebbe la teoria. “Ci sono alcune ragioni per le quali il risparmio in eccesso può non alimentare la domanda aggregata”, sottolinea Ocse, pure non tenendo conto del deficit di fiducia che potrebbe frenare la spesa. Per esempio, “la distribuzione dei depositi può essere distorta”.
L’organizzazione parigina fa alcuni esempi. “Se l’aumento dei depositi delle imprese è stato determinato da alcune grandi aziende che hanno beneficiato della crisi, in particolare nel settore tecnologico, è improbabile che i depositi in eccesso stimolino i futuri investimenti nell’insieme dell’economia. Allo stesso modo, se l’aumento dei depositi delle famiglie fosse principalmente guidato da famiglie ad alto reddito con la propensione marginale relativamente bassa al consumo, la riduzione dell’incertezza e delle misure di contenimento non porterebbero necessariamente a un rafforzamento generalizzato dei consumi”.
Detta semplicemente, il denaro potrebbe rimanere addormentato nei conti correnti. Col risultato che ne beneficeranno solo i titolari. E questo inevitabilmente alimenterà i dibattiti su una delle questioni più discusse del nostro tempo: la diseguaglianza.
La crisi indotta da Covid, infatti, sembra destinata ad aggravare una tendenza che si è manifestata chiaramente nelle ultime due crisi che hanno colpito l’economia internazionale: quella dei primi anni 2000, provocata dalla bolla di internet. E poi la Grande Recessione, iniziata nel 2008. Una ricognizione molto istruttiva della Fed di S. Louis ci aiuta a inquadrare bene il problema.
Gli economisti della Banca infatti hanno monitorato l’andamento della ricchezza e dei redditi nella società americana durante e dopo le due crisi, arrivando alla conclusione che, a differenza di quanto accaduto con la crisi di metà anni ’90, al termine della quale i ceti più fragili hanno recuperato la propria ricchezza superando anche di molto il livello di partenza, nelle due crisi successive questo non solo non è accaduto, ma si sono anche approfondite le differenza fra il top – ossia i più ricchi – e il bottom, ossia i più poveri. Questa conclusione si può osservare osservando i tre grafici a seguire che misurano gli andamenti della ricchezza per le diverse classi.
Cominciamo dalla prima recessione. Il risultati sono illustrati dal grafico a seguire.
Il grafico prende in esame un periodo di circa cinque anni – venti trimestri – dal momento in cui inizia la crisi. Lo zero sulle ascisse rappresenta il momento di inizio del picco, e 100, sulle ordinate, l’indice del livello di ricchezza. Scorrendo lungo le ascisse si arriva a totalizzare i venti trimestri di osservazioni e incrociando l’indice sulle ordinate si costruisce la curva.
La prima cosa che si nota è che al termine della recessione, durata circa tre trimestri, sia l’1% al top che il 50% al bottom avevano incrementato di circa il 10% il loro livello di ricchezza. Le classi centrali stanno leggermente sotto, e questa tendenza rimane anche alla fine dei venti trimestri, che vedono la ricchezza netta per l’1% aumentata di circa il 60% e del bottom del 40%. Le classi centrali stanno ampiamente al di sotto. Interessante notare come a un certo momento e per circa sei trimestri, l’incremento della ricchezza dei bottom sia stato superiore a quello dei top.
Il grafico seguente copre la seconda recessione. Come si può osservare, l’andamento delle curve è molto diverso.
Al termine dei venti trimestri il 50% più povero ha recuperato il livello di ricchezza, aumentandolo pure ma solo di pochi punti, al contrario di quanto accaduto per le altri classi di ricchezza. Il top, ad esempio, l’ha vista crescere del 60%. Ma soprattutto il bottom ha sofferto i cali peggiori, per buona parte del periodo.
La terza recessione, quella fra il 2007 e il 2009, ha un andamento che in qualche modo ricalca quelli del periodo precedente.
A parte la durata molto più lunga della recessione, iniziata a dicembre del 2007 e terminata a giugno del 2009, la classe bottom è stata duramente penalizzata e non ha recuperato il suo livello di ricchezza prima di 35 trimestri,a fronte dei 17 trimestri necessari per la classe top, che ha chiuso il periodo di osservazione di 40 trimestri con un incremento della ricchezza netta vicino al 60% a fronte del 20% della bottom.
La crisi Covid di fatto tende ad aggravare questa tendenza ormai ventennale, avendo penalizzato non solo i redditi più bassi, legati magari ai settori più colpiti dalle misure di contenimento – si pensi ai servizi ricettivi – ma anche minato uno dei (pochi) meccanismi di perequazione sociale: l’istruzione. I conti, purtroppo, potremo farli solo alla fine. Ma gli ottimisti sono pochissimi.
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