categoria: Draghi e gnomi
La cancellazione del debito: tra ipocrisia, malafede e saggezza
Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –
Il tema della cancellazione dei debiti sovrani è tornato prepotentemente all’attenzione dei Governi, dei media e degli economisti, dopo che il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli, in una intervista a Repubblica domenica 15 novembre, l’ha definita “una ipotesi di lavoro interessante, da conciliare con il principio cardine della sostenibilità del debito”.
È stata, o per meglio dire, sarebbe stata una presa di posizione politica di rilievo che, unita ad altri passaggi della stessa intervista, come l’inutilità di riattivare il Patto di Stabilità prima del 2023, la necessità di rendere definitivo l’indebitamento comune e permanente il Recovery Fund, l’esigenza di rendere utile il Mes riformandolo e la presa d’atto che la crisi pandemica sta provocando disperazione e miseria e aprendo crisi sociali pericolose, avrebbe avuto l’obiettivo di evitare il pericolo concreto che la costruzione europea frani miseramente.
Niente a che vedere con l’affermazione “che il capo di una istituzione europea non può fare proposte perché configura una incursione pesante nelle politiche finanziarie dei Paesi membri e del Consiglio e perché può spaventare gli investitori”, che qualcuno ha sostenuto.
Invece, non solo qualche giorno dopo abbiamo assistito a una significativa rettifica di quanto dichiarato, ma il 29 novembre una nota di agenzia ha riportato l’auspicio dello stesso Presidente Sassoli, che l’Italia approvi in via definitiva l’attuale riforma del Mes, peggiorativa rispetto all’impostazione originaria. Una posizione, quest’ultima, che va nella direzione esattamente opposta a quella auspicata. Anche se è apparso a tutti evidente che il dietrofront è stato determinato da forti pressioni di una parte della maggioranza .
La proposta riguarderebbe la cancellazione dell’incremento del debito generato dalla necessità di finanziare misure di sostegno dell’economia per far fronte alla crisi pandemica, da parte di tutti i Paesi Ue, nel limite della quota detenuta dal sistema di banche centrali Ue (SEBC). Quindi sarebbero esclusi tutti gli altri soggetti creditori (privati e pubblici).
Per l’Italia, l’ipotesi in questione riguarderebbe il debito eccedente i 2.447 miliardi di euro registrato dalla Banca d’Italia al 29 febbraio 2020, che ha raggiunto i 2.582 al 30 settembre e che raggiungerà secondo la Nadef i 2.603 miliardi a fine 2020 (2.410 a fine dicembre 2019).
Considerato che la quota di debito detenuta dal SEBC è pari a 530 miliardi, il 20,5% del totale, la cancellazione potrebbe concernere l’intera quota del suddetto incremento più, eventualmente, l’importo del debito pregresso corrispondente ai nuovi prestiti comuni Ue (Sure, Recovery Fund e Mes).
Il tema della cancellazione del debito per la verità, non è nuovo. Nel ventesimo secolo vi sono stati 48 casi di cancellazione parziale e ristrutturazione del debito che hanno interessato sia Paesi ad alto reddito sia Paesi poveri o emergenti. Ricerche svolte hanno dimostrato che tutti hanno prodotto effetti positivi in termini di stock e servizio del debito, Pil e rating creditizio. Si tratta, quindi, di una ipotesi fattibile osservata con attenzione dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale.
Così come delineata nei suoi contorni, la proposta non innescherebbe negli investitori la paura di “diventare le prossime vittime di un default pubblico (…) che determinerebbe un incremento dei premi di rischio inclusi nei loro costi di indebitamento, e di conseguenza, un incremento del costo del debito pubblico”. Debitori e mercati finanziari non subirebbero “costi drammatici”, come qualcuno ha rilevato.
Semmai, proprio la riduzione del debito a seguito della cancellazione potrebbe generare l’effetto opposto: una maggiore tranquillità dei mercati, per la ritenuta più elevata capacità degli Stati di ripagare il debito nei confronti dei privati investitori, e una riduzione dei tassi di interesse.
Del tutto irrealistica, per non dire ridicola e nemmeno degna di commenti, sarebbe anche la paventata ipotesi che una cancellazione di parte del debito (ad opera della Bce) sia strumentale a un “autoaffondamento” delle istituzioni europee e a “far fuori la moneta unica”.
Se cancellare i debiti con molta fatica si può definire “un atto da economia di guerra”, quella che i Paesi stanno combattendo contro il Covid-19 è, di fatto, una vera e propria guerra (come l’hanno definita molti capi di stato e di governo), con effetti devastanti sull’economia dei Paesi colpiti.
Dal punto di vista giuridico, questa soluzione sarebbe molto problematica perché l’art. 123 del Trattato TFUE vieta alla Bce di concedere “ogni forma di facilitazione creditizia” agli Stati membri. Inoltre, l’art. 127, benché attribuisca al sistema delle banche centrali il compito di “definire e attuare la politica monetaria dell’unione” e di sostenere le politiche economiche al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi definiti nell’art. 3 del Trattato Ue, ne condiziona l’attività all’obiettivo di mantenere la stabilità dei prezzi. Restrizioni incompatibili con il ruolo di una vera banca centrale. Se non fosse per il famoso e lungimirante principio del “wathever it takes” dell’allora Presidente Mario Draghi, che non si è fermato dinnanzi all’apparente “vincolo giuridico”, assisteremmo ancora a manovre poco efficaci sui tassi d’interesse negativi.
E pensare che tra gli obiettivi di politica economica sono citati uno sviluppo sostenibile basato su una crescita equilibrata, un’economia sociale di mercato fortemente competitiva che miri alla piena occupazione e al progresso sociale, la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri. Ma sono obiettivi concreti o meri auspici?
Perché gli auspici sono ormai diventati irrilevanti e il momento storico richiede un cambio di passo e lungimiranza. I trattati non sono parole scolpite nella roccia. Si possono riscrivere o modificare per correggere errori, abolire regole anacronistiche e sopperire a mancanze di visione. E questo è ciò che servirebbe oggi.
Dal punto di vista tecnico si possono fare alcune considerazioni ad altrettante obiezioni sollevate.
La cancellazione del debito sarebbe inutile perché tanto c’è la Bce che sottoscrive buona parte dei titoli del debito pubblico rinnovando l’impegno a scadenza (roll over). Si dimentica, o si finge di dimenticare, che la banca non ha alcun vincolo: potrebbe revocare questa misura non convenzionale in qualsiasi momento, o decidere di farlo terminata la pandemia, ovvero esservi costretta per contenere il tasso d’inflazione al 2%, la soglia magica che delimita il mondo perfetto da quello disordinato. Inoltre, pur mantenendo gli acquisti di titoli pubblici tramite i piani PSPP e PEPP, potrebbe decidere di rientrare nella rigida regola della capital key al 17% per l’Italia (oggi non rispettata vista l’eccezionalità della situazione).
Se ciò avvenisse gli Stati dovrebbero finanziarsi autonomamente sul mercato a tassi più elevati. Questa prospettiva incrementa l’incertezza. Pessima condizione se permanesse a lungo.
Il mantra dell’equilibrio di bilancio, dell’equilibrio contabile tra attività – dove sono collocati i titoli che verrebbero cancellati – e passività e patrimonio netto. La registrazione di una perdita del valore dell’attivo e la corrispondente riduzione del patrimonio netto in territorio negativo ha scatenato i teorici dell’equilibrio (della partita doppia). Se diamo retta a due insigni economisti, J. Stiglitz e P. De Grauwe, “la banca centrale non necessita di un patrimonio netto positivo per restare solvibile”, anzi, “può assorbire qualsiasi perdita con l’unica prerogativa che non comprometta la stabilità dei prezzi”, perché i normali “vincoli di solvibilità non devono essere applicati alle banche centrali, in quanto queste non possono fallire”. Ipotesi peraltro avvalorata dalla Banca dei regolamenti internazionali in un report del 2013 e dalla stessa Bce nel documento n. 167/2016 (Profit distribution and loss coverage rules for central banks), nel quale si legge che “Le banche centrali sono protette contro l’insolvenza a causa della loro capacità di creare denaro e possono operare con patrimonio netto negativo”. Non è vero, quindi, che una riduzione del patrimonio debba essere assorbita da una corrispondente ricapitalizzazione da parte dei soci (le banche centrali nazionali).
La ridotta capacità di contrasto delle spinte inflazionistiche. L’unico serio vincolo all’operazione. La Bce non potrebbe vendere titoli che non avrebbe più, perché cancellati, e assorbire la liquidità (quella creata acquistando i titoli di stato). In realtà solo una parte dei titoli (debito) in suo possesso, per Paese, sarebbe cancellata: se assumiamo a) la previsione (NADEF) di un debito di 2600 miliardi a fine 2020 con un delta rispetto al 2019 di 194 miliardi, b) la quota di titoli detenuta dal sistema SEBC del 20,5% (533 miliardi), c) l’incremento del debito “pandemico” da marzo stimabile in 156 miliardi, la quota di titoli cancellati rispetto a quella in portafoglio sarebbe pari al 30% (156 rispetto a 533), al netto dei Sure, Recovery e Mes. Se a questa quota aggiungessimo quelle (inferiori) degli altri Paesi membri, l’impegno sarebbe non significativo, rispetto agli oltre 7.000 miliardi di titoli pubblici attualmente in portafoglio. Inoltre, rimarrebbe inalterata la possibilità di intervenire incrementando la riserva obbligatoria (i depositi presso la Bce), i tassi d’interesse, riducendo gli utili distribuiti ai governi tramite le banche centrali nazionali o emettendo titoli direttamente nei confronti del pubblico.
L’alternativa alla cancellazione potrebbe essere quella di inserire l’incremento del debito pandemico nazionale, variamente rappresentato da titoli con diverse scadenze temporali, in un titolo di debito comune “perpetuo” o con durata pari a 50/100 anni, emesso dalla Commissione Ue e sottoscritto dalla Bce (o questa volta proprio dal Mes). Il debito “trasformato” non sarebbe soggetto a continui rinnovi e all’incertezza che graverebbe sulla sua ripetuta sottoscrizione da parte della banca, e nemmeno ai vincoli del Patto di Stabilità (con l’irrilevanza nel calcolo del rapporto sul Pil). In contropartita, i governi nazionali dovrebbero impegnarsi, una volta superata la crisi pandemica e dopo la necessaria ridefinizione degli attuali arbitrari parametri di Mastricht, a definire un programma personalizzato concordato di ragionevole rientro del debito pubblico ante pandemia.
La trasformazione di una quota del debito pubblico degli Stati sovrani in titoli irredimibili a tasso zero era già stata proposta dall’economista C. Wyplosz con il PADRE Plan (Politically acceptable debt restructuring in the eurozone), nel 2014 e sempre nello stesso anno fatta propria da 340 economisti (guidati da L. Becchetti) che sottoscrissero un manifesto che proponeva l’acquisto da parte della Bce della quota di debito eccedente il 60% del Pil.
Da respingere al mittente, invece, la proposta di far acquistare i titoli sovrani detenuti dalla Bce dal Mes, solo per salvaguardare la tanto esaltata indipendenza della banca centrale. L’attuale configurazione del Mes, e quella che uscirebbe dalla definitiva adozione della riforma all’esame dei governi nazionali (per l’Italia il prossimo 27 gennaio, dopo l’approvazione all’Eurogruppo dell’altro giorno), renderebbe l’operazione pericolosa per varie ragioni (che ho evidenziato in altri scritti pubblicati su questo sito). Inoltre, l’atteggiamento negativo di molti Paesi membri nei confronti del Mes renderebbe politicamente inaccettabile la proposta.
È recente la presa di posizione del vicedirettore del Jacques Delors Centre, L. Guttenberg, secondo cui il Mes nell’attuale configurazione e in quella post riforma sarebbe utile solo i casi estremi, quando i Paesi non dovessero riuscire ad avere più accesso al mercato emettendo propri titoli di debito.
In conclusione, la politica ha il dovere di fare scelte tempestive e adeguate per risolvere problemi contingenti e disegnare un percorso di sviluppo in grado di attirare la fiducia dei cittadini, delle imprese e dei mercati. È miope ritenere che “una seria discussione su questo tema sia prematura, che si possa fare, forse, un domani quando la pandemia sarà terminata e il quadro del debito più chiaro”. Primo perché ciò significherebbe alimentare l’incertezza dei mercati e magari indurre alcuni Paesi Ue a chiedere ufficialmente la cancellazione del debito con il rischio di subire lo “stigma” e di vedersi ridurre la capacità di credito. Secondo perché quando arriverà quel tempo dovremmo essere già pronti e capaci di reagire. Terzo perché dovremmo fare anche i conti con i prestiti che non potranno essere restituiti da quei lavoratori che avranno perso l’impiego e imprenditori che avranno chiuso l’azienda. Con effetti sui bilanci delle banche e sul debito pubblico (se garantiti).
La gestione dell’economia va oltre la limitata visione secondo la quale “la cancellazione di un debito è una presa d’atto che il titolare non è in grado di ripagarlo”.
Twitter @GhiselliFabio1