Covid-19 e mercato del lavoro: l’impatto sulle regioni italiane

scritto da il 02 Dicembre 2020

La prima ondata di Covid-19 ha rappresentato un fortissimo shock per il mercato del lavoro. Come Tortuga abbiamo deciso di analizzarne l’impatto così da poter reagire meglio alla seconda ondata. Nel primo articolo di questa serie abbiamo mostrato come la crisi legata al Covid-19 abbia colpito soprattutto i lavoratori senza una laurea, i giovani ed il settore dei servizi. Nel secondo ci siamo concentrati sull’impatto sugli stranieri, sulle donne e sugli inattivi. Come cambia però il quadro dell’impatto sul mercato del lavoro quando si considera l’Italia non nel suo insieme ma nella sua suddivisione regionale?

Durante la prima ondata vi sono stati numerosi provvedimenti governativi che hanno limitato la libertà di movimento.  Di questi, il principale è stato il Dpcm del 9 Marzo, con cui è iniziato il primo lockdown. Nonostante il quadro epidemiologico non fosse lo stesso in tutte le regioni d’Italia, per gravità della situazione negli ospedali e per numero di contagiati, il governo Conte decise di vietare gli spostamenti non necessari in maniera trasversale e omogenea in tutta la penisola.

Una parte dei settori industriali, però, non fu soggetta al provvedimento di chiusura delle attività produttive poiché reputata “essenziale”. Per via di questa differenziazione settoriale è lecito aspettarsi dei trend diversi nella mobilità verso il posto di lavoro: imprese attive in determinati settori possono essere presenti maggiormente, ovvero più concentrate, in specifiche regioni. Grazie ai dati Google del Community Mobility Reports, abbiamo potuto verificare se tale eterogeneità regionale nella variazione della mobilità verso il posto di lavoro è effettivamente presente. Partendo dagli indici disponibili tra le rilevazioni Google, la figura 1 mostra la variazione del volume dei trasferimenti verso il posto del lavoro, calcolata usando la media mobile a sette giorni. È possibile osservare una diminuzione drastica omogenea tra regioni e coincidente con il periodo di lockdown di inizio marzo, a sottolineare come il divieto negli spostamenti abbia colpito trasversalmente tutte le regioni. Anche il recupero nel periodo post pasquale sembrerebbe essere molto omogeneo, mentre nella più recente seconda ondata è possibile rilevare una risposta più eterogenea ai provvedimenti governativi, in linea con la differenziazione regionale.

 

 

Quello che emerge dall’analisi di questa semplice serie storica è che la chiusura delle attività produttive – e dunque lo shock per l’economia – sia stata omogenea tra regioni, nonostante la pandemia abbia colpito le regioni in maniera eterogenea da un punto di vista sanitario. È lecito domandarsi, dunque, in che modo distribuire le risorse destinate ai ristori per la pandemia. Destinare più fondi alle regioni più colpite in termini di decessi, infatti, sarebbe una scelta fallace in quanto lo shock economico causato dalla pandemia è stato trasversale ed omogeneo nel paese.

Se si mettono in relazione i dati riguardanti l’incidenza dei decessi da Covid-19 (misura più precisa del numero dei contagi, in quanto non dipende dal numero di tamponi effettuati) e la perdita di posti di lavoro durante i primi due trimestri del 2020, si scopre infatti che le ricadute economiche dello stop delle attività produttive si sono riversate maggiormente sulle regioni meno colpite dalla pandemia. La figura 2 mostra la correlazione fra la percentuale di posti di lavoro persi fra il secondo trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2020 e l’incidenza dei decessi da Covid-19 sulla popolazione totale per regione. La dimensione delle bolle è proporzionale alla popolazione di ogni regione. Come mostra la figura, le regioni con un’incidenza di decessi da Covid-19 sulla popolazione più alta hanno subito una perdita minore di posti di lavoro. Nello specifico, la Lombardia, la regione più colpita dalla pandemia, ha perso il 2,4% dei suoi posti di lavoro a fronte di 1,65 decessi ogni 1000 abitanti, mentre la Calabria ha perso l’8,1% dei suoi posti di lavoro a fronte di 0,05 decessi ogni 1000 abitanti.

 

 

Questo risultato è coerente con l’analisi sulla mobilità sviluppata in precedenza: il lockdown ha colpito trasversalmente tutte le regioni, indipendentemente dall’incidenza del virus, e i costi delle chiusure hanno danneggiato soprattutto aree del paese fragili in partenza (Calabria, Sardegna, Sicilia, Puglia e Campania).

Alla luce di questi risultati accogliamo con favore la divisione delle regioni in tre categorie in base al rischio del contagio come previsto dal Dpcm del 4 novembre. Restano però alcuni limiti che andrebbero superati. In primo luogo, gli indicatori introdotti per differenziare le regioni rischiano di essere troppi e non facilmente monitorabili dai cittadini. Al momento sono 21. Questo comporta ulteriori costi sulle imprese legati all’impossibilità di operare previsioni sul futuro stato della regione in cui operano. Inoltre, ridurre il numero degli indicatori potrebbe aiutare a dare chiari incentivi alle regioni sulle politiche da implementare per contrastare il virus. Al momento infatti gli indicatori in alcuni casi sono tra loro discordanti e in altri tendono ad incentivare comportamenti opportunistici. Tra gli indicatori ad esempio troviamo sia il numero assoluto di casi notificati che la percentuale di tamponi positivi sul totale. Risulta ovvio che una regione che volesse provare a far variare i propri indicatori così da far cambiare artificiosamente il proprio colore nel primo caso potrebbe avere un incentivo di breve termine a diminuire il numero di tamponi fatti mentre nel secondo avrebbe un incentivo ad aumentare esponenzialmente il numero di tamponi effettuati sul territorio.

Inoltre, i problemi economici avuti in Italia durante la prima ondata per la mancata differenziazione delle misure tra regioni rischiano di riproporsi in questa seconda ondata a livello regionale. Le misure, infatti, impongono uno stop uniforme sul territorio regionale che non tiene in considerazione l’effettivo rischio nelle singole province o nei singoli comuni. Come Tortuga, in un nostro recente report abbiamo proposto una differenziazione del territorio nazionale sulla base di sistemi locali del lavoro (Sll), ovvero aree costituite da più comuni all’interno delle quali intercorrono la maggior parte degli spostamenti lavorativi. Questa divisione, superati gli ostacoli – non secondari – di natura amministrativa, potrebbe risultare più prudente e più efficace rispetto a quella regionale.

La misura del lockdown indifferenziato messa in campo dal Governo nel corso della prima ondata ha dunque determinato una distribuzione iniqua dei costi della crisi. Come abbiamo documentato nei nostri articoli precedenti, ad un rischio di fatalità più accentuato per i cittadini anziani, si è accompagnata una perdita di posti di lavoro ed un aumento dell’inattività concentrati soprattutto fra i giovani. In più, nessun contributo di solidarietà è stato imposto ai cittadini più abbienti e ai pensionati. Le ricadute economiche della crisi hanno riguardato alcuni settori in particolare, come quello dei servizi, lasciando illesi i settori protetti, in particolare la Pubblica Amministrazione. Infine, i costi economici ed occupazionali si sono riversati sulle regioni del Sud, nonostante le regioni del Nord siano state quelle più colpite dal virus. Questi squilibri nella distribuzione dei costi della crisi dipendono dalla natura delle misure del Governo, non differenziate per cittadini ed aree territoriali con differenti profili di rischio, e dalla fragilità di partenza che caratterizzava alcune categorie di lavoratori e territori prima della crisi. Se l’eccezionalità della situazione di inizio anno rende comprensibile un intervento generalizzato, rimane fondamentale che questi squilibri siano tenuti in considerazione nel definire le politiche per la ripresa.

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