categoria: Res Publica
Lo statale evasore e l’autonomo fannullone: se i luoghi comuni vengono ribaltati
L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –
La crisi pandemica che ha colpito il nostro Paese ha evidenziato, oltre ai ben noti effetti economici e sociali, un’aspra contrapposizione tra due categorie di lavoratori, dando vita ad una (inopportuna) battaglia ideologica: statali contro autonomi.
Da un lato, gli autonomi, che osteggiano un nuovo lockdown, mortifero per la sopravvivenza delle proprie attività, accusando invece gli statali, i cosiddetti “posto fisso”, di auspicare con troppa leggerezza una chiusura totale, soltanto perché “hanno lo stipendio garantito”. E via con gli slogan del tipo “è facile parlare di chiusura per chi ha lo stipendio garantito” o ancora “se chiude la parrucchiera, il bar, il ristorante, chi pagherà le tasse che finanziano gli stipendi degli statali?”.
Dall’altra parte, i sostenitori della “salute prima di tutto”, disposti ad assecondare di grazia nuove misure restrittive e accusati di pensarla così per il solo fatto di avere la sicurezza economica derivante dal posto fisso; anzi, di beneficiare anche del fatto di avere una scusa valida per non andare a lavorare, alimentando quell’immagine del lavoratore perdigiorno che scalda la sedia, interessato unicamente a portare a casa lo stipendio a fine mese. Del resto, pensano costoro, come possono lamentarsi proprio gli autonomi, che hanno affossato questo Paese evadendo “storicamente” le tasse?
Una divisione che, a parere di chi scrive, è sintomatica di una tendenza generale a guardare, o meglio a salvaguardare soltanto il proprio orticello. Ognuno pensa a sé e al proprio recinto. Una mancanza di visione d’insieme che fa più danni, da anni, della pandemia stessa.
Si fa fatica a comprendere il danno collettivo arrecato dai comportamenti del singolo.
Il contribuente che si sottrae all’imposizione tributaria (talvolta invocando la figura dell’evasione “di sopravvivenza”, perché la pressione fiscale è insopportabile) crea un danno all’intero sistema – è indubbio – sottraendo risorse allo Stato, che in qualche modo vanno reintegrate. Il colmo è che la reintegrazione avviene proprio inasprendo le misure fiscali, magari quelle più difficilmente eludibili, quali la tassazione della proprietà (è d’attualità il discorso sul ripristino dell’Imu sulle prime case) o quella sul lavoro dipendente (che crea disoccupazione o lavoro nero).
È un cane che si morde la coda, un circolo vizioso che si autoalimenta. Ma, si noti bene, allo stesso circolo vizioso appartiene il lavoratore negligente, il “fannullone” che incassa lo stipendio, erodendo quelle stesse risorse già indebolite, senza dare in cambio nulla. Da un lato, le risorse vengono a mancare con l’evasione; dall’altro, le stesse risorse vengono “sprecate” per stipendiare il perdigiorno. Sono due facce della stessa medaglia, questo va ben compreso.
Ed ecco quindi che le due figure, l’autonomo e lo statale, si mischiano nello stesso calderone. Non c’è più differenza tra loro: lo statale lassativo diventa evasore, l’autonomo evasore diventa lassativo rispetto al sistema.
Il paradosso rende ancor più evidente l’assurdità della dicotomia tra queste due categorie.
Non sorprende, dunque, che qualche esercente furbacchione si infili nei buchi normativi di un recente DPCM, per chiudere la propria attività alla mezzanotte e riaprirla un quarto d’ora dopo (nel provvedimento si specificava soltanto l’orario di chiusura dei bar, ma non quello di riapertura). La cosa ha anche un suo lato comico e la norma è stata peraltro osservata nella sua formulazione letterale; di certo, però, non ne è stata rispettata la ratio, seppur evidente. Il punto è che le regole, giuste o sbagliate, condivise o non condivise, vanno rispettate, senza se e senza ma. Non ne usciamo, se ognuno fa come gli pare.
L’altra categoria non è da meno. Nonostante gran parte dei lavoratori pubblici siano in smart working, percependo comunque l’intero stipendio, le sigle sindacali combattono da mesi una battaglia per ottenere i buoni pasto anche per chi lavora da casa. La posizione ministeriale sul punto è chiara: il buono pasto, essendo un benefit previsto proprio in relazione all’esistenza di una “pausa pranzo” non spetta in automatico se il lavoratore è a casa (e non ha una pausa pranzo da passare fuori, con relativa spesa). Ma i sindacati insorgono e rivendicano il diritto a percepire comunque il benefit, richiamando le previsioni contrattuali e il principio di non discriminazione dei lavoratori (nella specie, quelli a casa). E non è tutto, perché ulteriori rivendicazioni vengono mosse a riguardo della c.d. “indennità informatica”, ovvero per lo scomodo di dover utilizzare pc e connessione personale da casa. Onestamente, ritengo che percepire il 100% dello stipendio possa bastare, in relazione alla situazione congiunturale.
La questione è sempre la stessa: la cieca salvaguardia, estrema ed esclusiva, del proprio orticello.
Con questo atteggiamento sarà difficile superare la crisi pandemica e, soprattutto, uscire dall’impasse in cui il Paese si trova da decenni.