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Perché per le pensioni non conta il principio che uno vale uno
Chi ancora ricorda le narrazioni del “governo del cambiamento”, sicuramente avrà memoria dell’adagio che accompagnò la promulgazione di Quota 100. Suonava all’incirca così: “Mandiamo in pensione gli anziani e così aumentiamo i posti di lavoro per i più giovani”.
Già a quel tempo molti, dotati di un qualche tipo di discernimento, leggevano con diffidenza queste suggestioni. E oggi, grazie a uno studio di Bankitalia, possiamo dire che avevano ottime ragioni. Perché non è affatto vero che pensionare in anticipo aumenta le possibilità occupazionali dei giovani. Semmai è vero il contrario. “Un aumento del 10% dei lavoratori anziani – scrive Bankitalia – implica un aumento dell’occupazione dei lavoratori giovani e di mezza età rispettivamente dell’1,8 per cento e dell’1,3 per cento”.
I dati sono stati ricavati analizzando gli effetti della riforma Fornero, tanto esecrata quanto evidentemente fraintesa. E valgono la pena di un breve approfondimento, che se sicuramente non servirà a persuadere i fan dei pensionamenti anticipati, magari genererà qualche dubbio nei tanti che ancora non hanno ben compreso che un’economia non funziona come un calcolatore. Quindi non vale il principio che uno (che va in pensione) vale uno (che entra nel lavoro). E per fortuna, viene da dire. Anzi: “Questi risultati suggeriscono che i lavoratori anziani siano una risorsa preziosa per i datori di lavoro”. O meglio che “giovani e anziani siamo complementari nelle aziende”.
Il paper analizza anche gli effetti dell’aumento del numero di lavori anziani su altre variabili delle imprese considerate, che sono di varia dimensione e distribuite su tutti i settori tranne quello agricolo. In particolare gli effetti sul valore aggiunto e sul costo del lavoro. Ed è emerso che “la riforma (che ha aumentato l’età pensionabile, ndr) ha portato a un’espansione in termini di produzione e occupazione nelle imprese interessate a costo e produttività medi del lavoro costanti”. Dal che gli studiosi hanno dedotto che “le aziende sono in grado di assorbire i lavoratori più anziani senza difficoltà, almeno a breve termine”. Il che toglie un altro argomento a chi pensa che pensionare anticipatamente le persone giovi ai conti dell’azienda.
Tutto ciò dovrebbe bastare a comprendere quanto sia pernicioso, fatte le dovute eccezioni, continuare a promuovere i pensionamenti anticipati. Ma non c’è da farsi molte illusioni che ciò basterà a promuovere il buon senso, visto che il cantiere delle riforme pensionistiche (leggi: facilitare i pensionamenti) è sempre aperto nel nostro paese. Lo abbiamo visto anche di recente.
L’effetto della riforma Fornero è chiaramente visibile nei grafici sotto, riferito il primo alle pensioni di vecchiaia (old age) e il secondo a quelle di anzianità (seniority).
In sostanza la Fornero innalzò sensibilmente i requisiti sia per le pensioni di vecchiaia che per quelle di anzianità, generando non poche polemiche. Il seguito della storia è noto, ed è inutile tornarci qui. Più interessante osservare le simulazioni svolte dagli autori del paper che ci consentono di apprezzare l’effetto avuto sulla quota di over 55 in attività.
In sostanza nel 2014 gli over 55 ancora attivi erano di oltre due punti percentuali più di quelli che sarebbero stati senza la riforma. Una buona notizia o una cattiva? La risposta non può che essere: entrambe. Di sicuro sarà stata una cattiva notizia per chi – e sono tanti – voleva uscire dal lavoro. Ma per l’economia nel suo insieme la risposta potrebbe non essere molto diversa.
Lasciando da parte il discorso generale, per cui l’invecchiamento della popolazione richiede logicamente il prolungamento dell’età lavorativa, a meno che non si voglia aumentare drammaticamente il tasso di dipendenza e quindi peggiorare la sostenibilità del sistema previdenziale, bisogna osservare che è molto dibattuto l’effetto dei pensionamenti anticipati sul sistema economico.
In tal senso il contributo dello studio di Bankitalia riveste un particolare interesse, visto che le conclusioni cui abbiamo accennato sono state elaborate sulla base di dati estratti dalla nostra esperienza recente. E gli esiti, per quanto “storicamente” condizionati, danno una risposta abbastanza chiara: posporre il pensionamento, nell’Italia del 2011, ha giovato all’economia dell’Italia degli anni seguenti. Tale affermazione non ha valore di verità assoluta – ammesso che esista una categoria del genere in economia – ma di verità relativa sì.
Vediamo altre conclusioni: “Riteniamo che un aumento esogeno dell’occupazione dei lavoratori più anziani conduca ad un aumento dell’occupazione anche in altre classi di età”. Ciò avviene grazie a un aumento dei posti “sia a tempo determinato che a tempo indeterminato per i lavoratori più giovani (15-34), sia di un aumento delle posizioni permanenti per la mezza età (35-54)”.
Meglio ancora: “Troviamo un forte associazione positiva tra variazione nell’occupazione degli over 55 e l’occupazione dei giovani (15-34 anni) e dei lavoratori di mezza età (35-54 anni)”. In particolare, si segnala la maggior frequenza di contratti a tempo determinato per i 15-34enni, sempre a fronte di un aumento della permanenza degli over55, e una maggiore frequenza di contratti a tempo indeterminato per i 35-54enni.
La prossima volta che parliamo di pensioni anticipate parliamo anche di questo magari.
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