categoria: Vendere e comprare
Tim e Open Fiber litigano, ma il vero problema del digitale non è la rete unica
Durante il lockdown ci siamo tutti resi conto di quanto la connessione a internet sia essenziale nel mondo d’oggi. Istruzione, lavoro, servizi bancari, intrattenimento: tutti dipendono da una buona connessione. È con questa consapevolezza che il dibattito sulla creazione di una rete infrastrutturale unica tra Tim e Open Fiber è tornato al centro dell’attenzione pubblica, come abbiamo anche spiegato in un articolo precedente. Tuttavia, il vero problema forse non è rappresentato dall’insufficienza della rete – sebbene ancora carente in alcune zone – quanto dall’incapacità da parte dei cittadini di sfruttare i servizi e le potenzialità del digitale.
Per capirlo guardiamo al Digital Economy and Society Index (Desi), un indice della Commissione Europea che monitora il progresso digitale negli stati membri. È composto da 5 classi di indicatori: connettività, capitale umano, uso di internet e servizi, integrazione delle tecnologie digitali e servizi pubblici digitali. L’Italia è sempre stata in fondo alle classifiche e ancora nel 2020 ci assestiamo al 25mo posto. I problemi principali? Siamo gli ultimi per quanto riguarda il capitale umano e penultimi per quanto riguarda l’uso di internet. Invece, gli indici legati all’apparato infrastrutturale e la dotazione di servizi pubblici digitali sono in linea con la media Eu. Il vero problema italiano sono le competenze, non l’infrastruttura.
Il problema è il capitale umano, non fisico
Secondo gli ultimi dati del Desi, nel 2019 il 42% degli italiani tra i 16 e 74 anni possiede solamente competenze informatiche di base, contro il 58% della media Eu; dato che scende al 22% in Italia se guardiamo a competenze superiori, contro il 33% della media europea. Considerando i lavoratori esperti nel settore tecnologico, in Italia raggiungiamo solo il 2,8% contro una media Eu del 3,9%. Se tra questi evidenziamo i laureati, il dato si abbassa al solo 1% in Italia, contro il 3,6% in Eu. E il problema non è imputabile all’età avanzata della popolazione italiana. In Spagna, paese con una situazione demografica simile alla nostra, la popolazione che ha competenze informatiche più che basilari è più alta di quella italiana per tutte le fasce d’età, compresi gli anziani (figura 2).
Non solo non abbiamo molte conoscenze digitali, ma usiamo poco anche internet. Il 17% degli italiani non lo ha mai usato, contro il 9% di media europea. E chi lo usa lo fa per scopi ricreativi, tra videochiamate e streaming. Nel complesso, il punteggio relativo all’utilizzo di internet e alle sue finalità ci vede terzultimi in Europa: davanti solo a Romania e Bulgaria e 14 punti sotto la media. Internet non è sfruttato neanche nel commercio: le attività di e-commerce, sia lato shopping che vendita, sono inferiori alle medie europee. L’indice di digitalizzazione delle imprese rivela che solo il 10% delle Pmi italiane usa il web per la vendita online, contro il 18% a livello europeo. Guardando ai servizi pubblici, nonostante un livello di digitalizzazione della Pa in linea con la media Ue, solo il 32% degli utenti italiani ne usufruisce, meno della metà del livello comunitario.
Cosa si è tentato di fare finora
Nel 2019 il Ministero per l’Innovazione Digitale (Mid) ha annunciato la strategia Italia 2025, con l’obiettivo di raggiungere entro il 2025 valori del Desi in linea con i paesi Eu considerati socio-economicamente simili all’Italia, tra cui Germania, Spagna e Francia. L’iniziativa chiave è Repubblica Digitale, già attiva da maggio 2019, che raccoglie proposte di progetti da parte di enti privati o pubblici, poi implementati in collaborazione con il Mid. Si mira al rafforzamento dell’istruzione e delle competenze digitali della forza lavoro, all’aumento di competenze specialistiche Ict e a un maggiore utilizzo degli esistenti servizi di Pa online.
Dal suo lancio, Repubblica Digitale ha avviato 146 iniziative con i 145 proponenti che hanno aderito al manifesto. Tutto sommato pochi, considerando il vasto numero di realtà pubbliche e private che operano in Italia. I maggiori contributori sono Ong nazionali e Pmi, mentre il settore pubblico ha proposto il 26,2% delle iniziative. Tra le regioni ci sono forti differenze: guardando all’elenco di iniziative a scopo regionale o locale, si contano 11 progetti avviati in Lombardia, almeno 5 in Umbria, Sicilia e Lazio, ma nessuno in Calabria, Basilicata, Molise e Abruzzo. Repubblica Digitale non pone precisi obiettivi quantitativi di iniziative da avviare a livello nazionale o regionale. Paradossalmente, questa mancanza di coordinazione nazionale può accentuare, anziché colmare, il divario tra le regioni italiane in termini di accesso a opportunità e quindi di competenze digitali.
Altra debolezza del piano è lo scarso coinvolgimento di persone più a rischio di esclusione digitale, mentre eccessiva attenzione è riservata agli studenti, nonostante proprio il Mid riporti che l’alfabetizzazione digitale di docenti e studenti sia in linea con la media europea. Eppure, alunni e studenti universitari appaiono 78 volte come categorie destinatarie tra tutti i progetti legati a Repubblica Digitale, su 208 categorie menzionate in totale. Gruppi a rischio, come i poco istruiti, gli immigrati e i disoccupati sono elencati meno di 5 volte ciascuno.
Delle idee d’intervento
Di fronte alle criticità emerse, si può pensare a tre macro aree di intervento: maggiore autonomia e impegno regionale per l’avvio e il monitoraggio di progetti legati a Repubblica Digitale; la disposizione di incentivi per coinvolgere le fasce ad alto rischio; e un generale upskilling della forza del lavoro e degli studenti.
Delegare parte della gestione di Repubblica Digitale con una quota minima di progetti da avviare in ognuna favorirebbe proattività e copertura omogenea e capillare del territorio nazionale, incentivando enti locali ovunque a partecipare. Ad oggi, gli obiettivi misurabili di performance dei progetti non sono disponibili, ma è necessario che il Mid provveda un sistema di benchmarking unico e pubblico a cui le regioni possano fare riferimento per avviare e monitorare autonomamente iniziative strutturate e di qualità uniforme.
Per le fasce a rischio, possibili interventi sono l’inserimento di quote specifiche per iniziative mirate ad esse, oppure l’assegnazione di un vantaggio in graduatoria per la loro inclusione. È possibile raggiungere alcune delle categorie più deboli anche tramite un potenziamento delle esistenti politiche attive del lavoro: Anpal promuove la formazione digitale dei giovani che né lavorano né studiano, ma non offre servizi simili a disoccupati già in età lavorativa che andrebbero invece inclusi.
Un primo giusto passo verso la formazione digitale dei lavoratori privati è stato mosso con l’inserimento di crediti d’imposta per attività di formazione con il piano Industria 4.0. Ma la misura è stata scarsamente utilizzata a causa delle complessità burocratiche. Le micro-imprese (meno di 10 lavoratori) spesso non investono proprio in formazione del personale. Occorre quindi superare sia il problema dell’offerta di formazione digitale, agendo a livello locale e coinvolgendo enti di formazione territoriale che insegnino alle micro-imprese le potenzialità del digitale, che quello dei costi: inserire dei crediti d’imposta con soglie di costo più basse e con minori oneri burocratici potrebbe aiutare.
Infine, la formazione dei giovani. L’istruzione tecnica in Italia è sottosviluppata e nelle università spesso si prediligono insegnamenti teorici piuttosto che applicati, anche a causa degli scarsi rapporti con le imprese. Cosa fare? Nel libro “Ci pensiamo Noi” (Egea, 2020) proponiamo per esempio di potenziare la struttura degli Istituti Tecnici Superiori (Its), enti di formazione terziaria incentrati su discipline tecniche (come industria 4.0 e big data) con una forte partnership con le imprese. Raccomandazione che viene data anche dall’Unione Europea per l’Italia.
Alcune di questi suggerimenti sembrano essere parte della Strategia Nazionale per le Competenze Digitali adottata a luglio 2020 dal Mid. La Strategia è ancora agli albori e non ha ancora portato a dei dati da poter valutare, ma sarà oggetto di future analisi.
Per investire nella crescita di questo paese occorre risalire sul treno dello sviluppo digitale. Con il Recovery Fund arriveranno risorse preziose per riattivare la crescita del paese. Perché la crescita sia duratura occorre agire sui problemi strutturali, evitando bonus e distribuzione di risorse a pioggia. Il capitale umano e la digital literacy devono essere tra le priorità.
Twitter @Tortugaecon