categoria: Vicolo corto
Senza le banche e la borghesia commerciale, meno cultura in Italia
Si sente dire “banconota” e il pensiero corre immediatamente alla cartamoneta, cioè a uno strumento di pagamento emesso dalle banche centrali che abbia corso legale e valore di scambio. In realtà, c’è molto di più e, in genere, non s’immagina che il denaro e la sua circolazione possano essere all’origine della lingua e della cultura italiane. Molto probabilmente, nel parlare di “origini”, siamo stati alquanto generosi, è vero, ma, di fatto, non ci si può sottrarre a un’evidenza storica: la floridezza economica della Firenze dei grandi banchieri, i Peruzzi, i Bardi, gli Acciaiuoli, nel XIII e nel XIV secolo, determinò il dominio del fiorentino. Dunque: questione della lingua ed economia sono inscindibilmente e profondamente legate. Anzi, si può ipotizzare che l’espressione “vile denaro” sia impropria e, per certi aspetti, pure inelegante e infondata, dal momento che, senza la borghesia commerciale e finanziaria della Firenze dell’epoca, figure come quelle di Giotto, Donatello, Masaccio, Leon Battista Alberti, Paolo Uccello, Botticelli, Leonardo, Michelangelo e molti altri non avrebbero avuto il lustro di cui invece hanno meritatamente goduto. Tra le altre cose, in quanto a lingua e uso, specie in economia, esiste quasi sempre, anche quando non ne siamo consapevoli, una particolare corrispondenza tra parole e cose, corrispondenza che fa la storia.
Il termine adottato in apertura a scopo di suggestione, “banconota”, per esempio, deriva dall’espressione “nota di banco”, con la quale i banchieri certificavano un deposito o fornivano al cliente l’equivalente cartaceo della moneta metallica. Alcuni storici dell’economia ne fanno risalire l’origine alla volontà dell’imperatore cinese Hien Tsung, il quale, nel IX secolo, stabilì che i mercanti le ricevessero in cambio delle monete di rame. A ben riflettere, l’inglese notes, da cui proviene la nostra voce, indica proprio la cedola che veniva emessa dalle banche.
Quando ci si chiede, di conseguenza, perché il fiorentino si sia affermato così prepotentemente, oltre a rivolgere le proprie attenzioni alle cosiddette tre corone fiorentine, Dante, Petrarca e Boccaccio, occorre esaminare il contesto entro il quale l’opera linguistica s’è compiuta: il Banco dei Medici, che aveva sedi a Roma, Venezia, Milano, Napoli, Lione, Parigi e Londra, era in grado di fare prestiti ai sovrani d’Inghilterra e Francia; il che si rese possibile grazie all’intensa attività commerciale svolta negli anni precedenti; loro rivali erano gli Strozzi, altra famiglia di banchieri con potenti ramificazioni in tutta Europa, mentre non erano affatto da meno i già menzionati Bardi e Peruzzi, che annoveravano tra le proprie filiali quelle di Barcellona, Marsiglia, Londra, Costantinopoli e addirittura Gerusalemme. Tutti questi riferimenti al mondo delle banche potrebbero apparire inopportuni, se commisurati al fenomeno della lingua e della sua evoluzione. Ciò accade perché si è abituati a pensare che le trasformazioni e le ‘proposte’ linguistiche si trovino unicamente nei grandi libri. Nella realtà, non è così e lo sanno bene i linguisti e i ricercatori della materia. Tutti noi apprezziamo il primato letterario del De vulgari eloquentia (1303-1304) di Dante Alighieri o delle Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo, ma le vere e proprie variazioni d’uso si trovano negli scambi epistolari, nelle iscrizioni, nelle formule di preghiera, nei documenti delle cancellerie et cetera, ovverosia in tutte quelle fonti in cui la lingua è espressa in vivezza e grazie alle quali si passò gradualmente dalle cosiddette scripate volgari a delle coinè regionali o addirittura sovraregionali che rispondevano a bisogni reali.
È universalmente nota ormai la vicenda dei placiti cassinesi, tra i primi documenti redatti in volgare, sottratti cioè al dominio del latino e che riportano un vero e proprio contenzioso svoltosi al cospetto d’un notaio tra un privato e il monastero di San Benedetto di Montecassino (“Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti”). In sostanza, qui, si dimostra come l’uso prevalga sulla forma e sulla tradizione dei chierici, che, fino ad allora, avevano imposto il latino.
La chiosa, tuttavia, non resta prettamente letteraria; al contrario, si ricongiunge rapidamente al fermento economico dell’Italia dei comuni, prima, e delle signorie, successivamente. Non a caso, i centri più attivi in materia d’evoluzione linguistica erano anche quelli più fecondi in ambito commerciale: Milano, Genova, Bologna, Palermo e Firenze.
Sullo stesso piano è da collocare il contributo delle repubbliche marinare: Genova, Venezia, Pisa e Amalfi su tutte. Il 25 giugno 1183, la Lega Lombarda e l’imperatore Federico Barbarossa siglarono la pace di Costanza, accordo grazie al quale Venezia poté imporre pure la propria sovranità monetaria. In poco tempo, il ducato veneziano d’oro, unitamente al fiorino, divenne moneta dominante e incontrastata soprattutto perché la Repubblica Marinara, in quel periodo, era, molto probabilmente, il più ricco luogo di scambio commerciale del mondo: dalle pietre preziose agli scambi finanziari, non c’era limite alla forza economica di Rialto. Senza voler forzare troppo il ricorso agli accostamenti a vantaggio della tesi da noi esposta, basta sfogliare Il Milione per rendersi conto della congruenza tra lingua, linguaggi ed eventi. L’opera, molto generosamente attribuita a Marco Polo, ma nella realtà scritta da Rustichello da Pisa, uno scrittore che avrebbe raccolto e trascritto la testimonianza del mercante viaggiatore, fu redatta in franco-veneto, cioè in un volgare. All’epoca, la lingua della comunicazione internazionale non era affatto l’inglese, bensì il francese, una lingua romanza nei confronti della quale l’italiano di oggi ha parecchi e sostanziosi debiti. A ogni modo, l’italiano del XV e del XVI secolo godeva di elevato prestigio, a tal punto da essere una lingua molto usata pure presso la maestosa corte di Elisabetta I Tudor.
La morale da leggere in questi aneddoti di ‘economia letteraria’ può essere addensata con la sintesi della trama de La favola delle api, opera in versi composta nel 1705 da Bernarde de Mandeville. In un vasto alveare, dove non esiste una vera e propria forma di governo, un grosso sciame d’api vive nel lusso; tutte le api lavorano indistintamente e alacremente, senza preoccuparsi in modo specifico di regole e leggi, ma riuscendo, comunque, a dotarsi d’una tacita legislazione. Il sistema è talmente fecondo che le api, come scrive l’autore, non vivono né schiave della tirannide né sotto la democrazia, ma, nello stesso tempo, creano una “culla delle scienze e dell’industria”. Naturalmente, questo equilibrio comporta qualche prezzo da pagare: non tutti hanno gli stessi privilegi; la corruzione c’è, pur non essendo nominata e qualificata in modo specifico et cetera. Quando, però, a un certo punto, si fa avanti un rivoluzionario allo scopo di porre fine alle malversazioni, un rivoluzionario che s’è arricchito truffando i propri clienti, la società crolla miseramente in nome dell’onestà e della giustizia. Il popolo si lascia incantare dall’imbonitore di turno e il benessere ha fine immediatamente. In una nota, Mandeville scrive:
La frugalità, come l’onestà, è una virtù mediocre e malnutrita, adatta soltanto a piccole società di uomini buoni e pacifici, disposti ad essere poveri, pur di stare tranquilli; ma in una nazione grande e indaffarata, presto non sapreste più che farvene. È una virtù oziosa e sognatrice che non dà lavoro, e quindi è del tutto inutile in un commerciale, dove sono in molti a dovere essere messi in un modo o nell’altro al lavoro.
Tenendo fede al criterio economico-culturale fin qui esposto, non appare paradossale, a questo punto, che, in una società povera come quella del Mezzogiorno italiano della fine del XIX secolo, l’80% della popolazione era analfabeta. Le leggi sull’obbligo scolastico, nello stesso tempo, venivano percepite come una sorta di violenza sociale perché i ragazzi, anziché andare a scuola, si dovevano dedicare ai campi. Secondo gli studi fatti da Tullio De Mauro intorno agli anni Sessanta, nell’Italia postunitaria solo poco più di 150.000 persone parlavano l’italiano. Ciò significa che un palermitano e un milanese erano stranieri, ma significa pure che non esisteva alcun dialogo commerciale autentico tra Nord e Sud.
Il grande patrimonio culturale cui, molto di frequente, facciamo riferimento ogni qual volta in cui parliamo dell’Italia quale “culla della cultura”, in realtà, è da rinviare interamente alla figura del mercante e al ruolo della borghesia commerciale, che hanno contribuito non solo a creare grande fervore economico, ma anche un’altrettanto grande fluidità della lingua, di cui sono testimonianza centinaia, se non migliaia, di documenti letterari e non che vanno dalle raccomandazioni dell’Anonimo genovese (XIII-XIV sec.) alle infinite lettere commerciali (scritte non solo da uomini, ma anche da donne, mogli di mercanti che, in assenza dei mariti, dovevano sostituirsi a essi nella gestione degli affari di famiglia), alle registrazioni contabili, persino ai memoriali di famiglia, in cui venivano riportate non solo le vicende private, ma anche quelle legate all’andamento dell’attività professionale. Si tratta di un patrimonio culturale inestinguibile, com’è già stato detto, che dimostra come lo sviluppo economico che dall’età comunale si estende almeno a tutta l’età delle Signorie e, parzialmente, dei Principati, sia da ritenersi innegabilmente come il presupposto fondante della diffusione dei volgari in Italia e della nostra essenza economica.
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