categoria: Res Publica
Un’architettura delle scelte per salvare la democrazia
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Proviamo a connettere i punti di alcuni fatti recenti: la rottura dei tabù del doppio mandato e delle alleanze da parte dei pentastellati, la politica “corsara” descritta da Sabino Cassese nel suo ultimo editoriale e i ripensamenti dell’ultima ora sul referendum del 21 settembre.
Il disegno che ne emerge è che in politica (mai come oggi) “non ci sono idee, ma solo interessi”, per usare le parole di un noto giornalista consegnato alla damnatio memoriae che incarna l’ultima cifra del nostro presente sempre più sfuggente e frantumato. Ciò potrà forse non sorprendere i più smaliziati, ma questa normale inclinazione della natura umana sembra essere accentuata da idee sempre più confuse e infelici. Che fine faranno, in questa deriva, le democrazie occidentali? Negli Stati Uniti se lo sta chiedendo il New Yorker in un ciclo di riflessioni che durerà fino all’elezione del Presidente. In Italia ce lo chiediamo da sempre in discussioni disfattiste e inconcludenti, da ultimo nel forum sul futuro del Parlamento al Meeting di Rimini e nell’ultima “inchiesta” dell’Espresso.
Le nostre discussioni sul numero dei parlamentari rivelano però, per esempio, come gli argomenti del dibattito italiano siano dettati più da ragioni propagandistiche che da analisi serie e oneste. Dunque è inevitabile che degenerino in una tempesta di slogan alimentati da ipocrisie e distorsioni della realtà. Tempesta in un bicchier d’acqua, però, perché è ovvio che i criteri di rappresentanza di più di due secoli fa – quando la frontiera tecnologica era la macchina a vapore – siano ormai superati da tempo. La verità è che i rappresentanti del popolo sono al tempo stesso troppi e troppo pochi. Troppi, perché dove occorrono ruoli di rappresentanza – poiché la volontà democratica non può formarsi sempre in un eterno presente senza (inter)mediazioni – è difficile pensare che possano essere svolte da una brigata di peónes guidati da capibastone di partito, ancor meno da sedicenti “responsabili” il cui unico obiettivo è tirare a campare il più a lungo possibile. Troppo pochi, perché in altri casi non serve sondare l’opinione dei rappresentanti quando si potrebbe facilmente sondare quella dei diretti interessati.
La verità è che i processi decisionali del settore pubblico – ma anche di quello privato – andrebbero rivisti nell’ambito di una riprogrammazione della cosiddetta “architettura delle scelte” che si avvalga anche degli strumenti tecnologici disponibili, che sono molto più potenti di quelli in cui si formarono le teorie delle democrazie occidentali, che risalgono al periodo illuminista. Potrebbero poi evolversi attraverso i metodi di correzione degli errori del cosiddetto “software agile”, se non del machine learning. Uno dei maggiori rischi nel non farlo è che ci pensino altri, che a tutto mirino tranne che al buon funzionamento delle istituzioni democratiche.
Un imperdibile Alessandro Barbero ci ha raccontato come nella nozione di democrazia siano convissute forme molto diverse nel corso della storia, in ragione delle dimensioni degli stati, del ruolo e della forza dei corpi intermedi della società civile, e ovviamente anche dell’evoluzione tecnologica. Nell’antica Grecia assumevano la forma di una consultazione diretta dei cittadini, resa possibile dalle dimensioni ridotte degli stati e dalla struttura rudimentale delle loro istituzioni. Nelle democrazie della prima e della seconda rivoluzione industriale, fondate sulla divisione del lavoro, non potevano che assumere forme più rappresentative. Nella terza rivoluzione industriale, tutt’ora in corso, le istituzioni non si sono (ancora) avvalse degli strumenti d’interazione delle più comuni organizzazioni digitali, come il più semplice dei social network. È quindi inevitabile che questo vuoto sia stato riempito da mattatori piacioni con una spiccata attitudine a rastrellare consensi a suon di “followers” e “like”.
D’altronde anche l’ascesa dei leader del secolo scorso è tributaria di una certa capacità di sfruttare la tecnologia del tempo. Oggi l’eloquio di certi autocrati – efficace in una società in cui l’unico mezzo d’informazione di massa era la radio – ci apparirebbe ridicolo, se non si fosse rivelato anche tragico. Quello dei leader della società digitale si fonda su idee forse meno totalitarie, ma dai toni altrettanto ebbri. Anzi forse ancor più ebbri, poiché fondati su idee più sfuggenti e confuse. Lo testimoniano la sempiterna invocazione dell’uomo forte, il disprezzo delle liturgie dei processi decisionali, della complessità dei problemi e delle loro soluzioni. Il tutto condito da una fenomenologia da Mike Bongiorno che ci presenta leader sempre più “carini e coccolosi”. E quindi li vediamo sciorinare le banalità più sconcertanti, esaltare le glorie nazionali e locali – dai campioni sportivi, alle cretinate esposte nei musei civici, alle specialità gastronomiche – e persino rovistare fra i nostri istinti più inconfessabili.
Se queste capacità di intercettare il sentimento popolare fossero canalizzate in processi più trasparenti e istituzionali si potrebbe forse arginare la deriva carismatica che sembra aver (ri)preso il potere. La riduzione del numero dei parlamentari non è certo la soluzione di tutti problemi, ma non è nemmeno il pericolo che alcuni evocano fingendo di ignorare l’agenda dei nostri parlamentari, che non è certo di rappresentare la volontà dei propri elettori, soprattutto in un parlamento composto prevalentemente da “nominati” in collegi con cui non hanno alcun vero legame. Ammesso che una rappresentanza del solo territorio abbia senso in una società sempre più complessa, dove dovrebbero contare anche altri criteri di rappresentanza.
Il vero pericolo, semmai, è che le istituzioni democratiche siano stravolte da pifferai magici sempre più capaci di rastrellare voti con nuove armi digitali di distrazione di massa. Nulla di nuovo, sia ben chiaro: gli imperatori romani cercarono il sostegno della plebe più che del senato, gli autocrati del 19° e del 20° puntarono sul suffragio universale per emarginare l’establishment. Ma non bisogna illudersi che le istituzioni democratiche del nostro tempo non corrano rischi analoghi.
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Mi è stato detto questo c’entra poco a con l’analisi economica dei problemi. Da liberale, credo però che non si possa prescindere da un’analisi marxiana, che vede una stretta relazione fra la struttura sociale e quella economica, a prescindere dal fatto che la prima (sovrastruttura) discenda dalla seconda (struttura) o viceversa.
Soprattutto sono sempre più convinto che l’architettura delle scelte sia, in ultima analisi, il problema centrale dell’economia. Il sistema capitalista è essenzialmente un’architettura di scelte che attribuisce ai proprietari il diritto di determinare le scelte produttive. Tant’è vero che problemi delle scelte sono sempre più centrali negli studi economici, da quelli sulla teoria dei giochi, a quelli sulla teoria delle scelte sociali a quelli sull’economia comportamentale.
Pensiamo, per esempio, ai vaccini e al contact tracing, che potrebbero rivelarsi decisivi per la ripresa economica. Qualcuno sostiene che l’imposizione di queste misure non sia compatibile con i diritti di uno stato democratico. È discutibile, ma in tal caso piuttosto che istituire “obblighi” si potrebbero istituire “diritti” di accedere a diversi regimi di libertà di circolazione in ragione delle misure adottate. Personalmente non avrei problemi ad accettare un maggiore controllo dei miei spostamenti per poter circolare più liberamente. Vorrei invece poter valutare i rischi del vaccino, pur avendo fatto fare ai miei figli tutte le vaccinazioni possibili, incluse quelle facoltative. E poi l’istituzione del “diritto” dei genitori dei figli vaccinati a iscrivere i propri figli in scuole (o classi) di studenti con gli stessi requisiti potrebbe, per esempio, avere effetti analoghi a quelli di un “obbligo” di vaccinazione generalizzato, ma risultare più accettabile.
I cinesi ci prendono spesso in giro per i nostri aneliti per libertà che sono più illusorie che reali. E forse hanno pure ragione. Ma se il problema fosse solo di lasciare una libertà di scelta, pur illusoria, molti problemi potrebbero essere risolti più facilmente migliorando l’architettura delle scelte, piuttosto che a colpi di slogan.