categoria: Vendere e comprare
Digitale e flessibilità, ecco come la manifattura italiana affronta la crisi
Ci fu un periodo, nel mondo occidentale, in cui avere tanti dipendenti era motivo di orgoglio, per gli imprenditori. Era l’epoca dei capitani d’industria illuminati: al tempo stesso imprenditori e filantropi. Erano ispirati da una dottrina sociale che li vedeva impegnati a tutelare la vita dei propri operai, colmando i ritardi della legislazione sociale dello Stato stesso. Numerosi i casi i cui di datori di lavoro crearono villaggi per i loro dipendenti. In Italia, un esempio classico è il villaggio Crespi d’Adda. Creato nel 1878, modernamente strutturato, era nato con l’idea di dare a tutti i dipendenti una villetta, con orto e giardino, e di fornire tutti i servizi necessari alla vita della comunità: chiesa, scuola, ospedale, dopolavoro, teatro, bagni pubblici.
Dal 1950 prese piede in America la filosofia liberista di Hayek, ben incarnata nel suo “discepolo” Friedman. Lui e i Chicago Boys spinsero l’America e, per conseguenza, l’intera Europa, verso il modello di outsourcing manufatturiero. Un ibrido produttivo originato dal concetto di vantaggio competitivo di Adam Smith, che univa una supposta efficienza economica (che ignorava i costi di esternalizzazione e l’impatto sociale sulla classe lavorativa) ad una politica del “trimestre”. Il concetto del trimestre è semplice. Ogni trimestre deve essere meglio di quello precedente.
Se il potere di acquisto è dato in lenta (de)crescita (come nella maggioranza dell’occidente dagli anni 70-80 in poi) hai solo due soluzioni: aumentare artificiosamente il potere di acquisto tramite debito (credito al consumo) e/o aumentare i margini abbassando i costi di produzione.
Per quest’ultima soluzione fu necessario abbassare il costo del lavoro ergo off shoring. Da quando la Cina venne trascinata nel WTO cominciò il sogno proibito dei liberisti. Il resto, come si dice, è storia.
Essere un imprenditore che imprende, che rischia (usiamolo questo termine ogni tanto!), che ha una sua azienda manufatturiera, magari a ciclo completo (dalla materia prima al prodotto finale) era, sino a pochi anni fa, quasi una vergogna. Alcuni imprenditori coraggiosi hanno cominciato a ribellarsi a questa mania del produrre tutto fuori. Il caso più famoso è Cucinelli, che ha ricostruito un villaggio per i suoi dipendenti. Ma, a ben guardare, i casi non mancano nemmeno in Lombardia. Il varesotto ospita piccole perle manufatturiere. Alcune più recenti altre antiche, integrate nel tessuto sociale della provincia.
Oggi ho pensato di parlare di queste realtà e capire come affrontano la crisi di ottobre che sta arrivando.
Monica Salvestrin, tra i fondatori del brand, è oggi direttore prodotto e marketing NAU! e CEO dell’unità produttiva. Il gruppo, nato nel 2004, oggi è tra i leader di mercato nella produzione e vendita di occhiali da vista e da sole con oltre 180 negozi nel mondo.
Marco Calleri è Ceo di Lisanza, storico marchio nato ai primi del 900 (1920) e rilevato di recente da una cordata di manager (oltre a Calleri ci sono Rosanna Buccaro e Paolo Sammarone), presenti con il loro marchio negli store di lusso con la loro maglieria e lingerie.
Materia prima, la filiera e la flessibilità
“Da noi arriva il filato prodotto da manifatture italiane e costituito dalle fibre naturali più nobili (cotone extra fine,100% seta e lana merino in mischia con la seta, noi non vogliamo usare fibre sintetiche e non naturali) il resto nasce qui” mi spiega Calleri. “La nostra azienda ha sempre operato in questo modo, sin da quando Liberata Bodio (la fondatrice n.d.r.) produceva abbigliamento intimo, sciarpe e guanti per le famiglie dei soldati al fronte sul Carso durante la Grande Guerra. Il vantaggio di avere l’intera filiera qui ci permette una grande flessibilità produttiva. Possiamo variare le linee, i modelli e le specifiche quantità in tempi pressoché immediati.”
Anche Monica Salvestrin è dello stesso parere. “Abbiamo scelto Varese come sede di tutte le nostre attività perché Varese è il secondo distretto Italiano dell’occhialeria. E certamente il più antico. E poi, siamo letteralmente attaccati ai nostri fornitori di materia prima”, mi spiega Monica Salvestrin. “Abbiamo occupato un’area produttiva dismessa e l’abbiamo fatta rinascere. Dove oggi ci sono i nostri uffici si producevano occhiali fin dal tardo ‘800. E oggi, a 30 metri da noi, prendiamo l’acetato, la materia prima per la produzione degli occhiali”, mi dice Monica indicando gli edifici del fornitore a pochi passi. “Con il tempo è nata una relazione simbiotica. Ogni volta che vogliamo testare una nuova soluzione o verificare un colore, basta attraversare la strada o scambiare due chicchere in mensa.”
Per entrambe le realtà di avere l’intera produzione in loco permette ampli margini di flessibilità. Una parola chiave in tempi di domanda oscillante, con richieste del mercato che possono mutare rapidamente.
Le risorse umane e il territorio
“La presenza di una tradizione di creazione di prodotti filati ci ha aiutato molto, persino in questi mesi di Covid”, mi dice Calleri. “Abbiamo attivato temporaneamente una produzione speciale di mascherine, per non demotivare i nostri collaboratori, essere di supporto al territorio e non vedere completamente azzerati i ricavi. In queste settimane siamo ripartiti con la produzione degli ordini pre-Covid. Nei mesi di lockdown non abbiamo soltanto prodotto mascherine ma abbiamo portato avanti buona parte dei progetti ed investimenti previsti dal business plan di rilancio dell’azienda. Abbiamo deciso di non fermarci, per avere un vantaggio competitivo alla ripartenza dopo il lockdown”, continua Calleri. “Abbiamo lavorato sulla nuova identità di marca, sulla nuova comunicazione e il nuovo logo. Abbiamo rivisto tutto l’assetto di prodotto con l’inserimento di nuovi articoli e nuove linee (il beachwear ad esempio), abbiamo tolto dalla gamma gli articoli non più performanti. Abbiamo investito creando aree interne dedicate che prima non c’erano quali il nuovo showroom e una nuova zona per il consumo dei pasti; area che non assolve solamente ad esigenze organizzative e pratiche ma soprattutto a luogo di condivisione dove possano essere favoriti lo scambio e il confronto.”
Il territorio è anche bacino di risorse umane. Invece di scaricare la produzione in qualche sweatshops (fabbriche del sudore), la tradizione locale manufatturiera ha lasciato, quasi come un tratto genetico, l’abitudine al lavoro di produzione.
“Alcuni metodi produttivi rischiavano di andare persi per sempre con l’off shoring in Asia” chiarisce Salvestrin. “Quando abbiamo insediato qui la nostra sede, mano a mano che crescevamo abbiamo cresciuto i nostri dipendenti. La necessità di avere personale qualificato, che conosca la materia, il prodotto, le dinamiche, è essenziale per una manifattura. Noi abbiamo creato una piccola scuola per formare i nostri giovani e futuri manager, proprio qui, in seno ai nostri impianti. La strada è ancora lunga, ma la percorriamo ogni giorno con gioia!”
Mondo digitale e flessibilità produttiva
Essere presenti su internet è ormai obbligatorio se si produce per il mercato retail: è necessario una piattaforma di vendite digitale, meglio ancora se connessa alla rete di vendite al dettaglio.
“Oltre agli investimenti portati avanti e di cui ho parlato prima, uno molto importante è stato verso il mondo digitale, difatti abbiamo rifatto completamente il nostro sito web e il canale di vendita on line ad esso collegato”, sottolinea Calleri. “Le piattaforme di e-commerce di proprietà permettono di raccogliere ogni singolo dato legato alla vendita al cliente. Sapere quanto tempo un utente si è soffermato su un capo in particolare, quante volte è tornato a visitare lo stesso prodotto, poter interagire con l’utente via mail o social, per esempio con il re-targeting, è assolutamente vitale”, continua Calleri. “Durante il lockdown la totalità delle vendite ha avuto luogo via e-commerce. Ora osserviamo come il mercato nazionale sta reagendo al post lockdown. L’essere verticali e la capacità quindi di definire una produzione su misura rispetto alla domanda ci permette di variare le produzioni sulla base degli ordini, senza dover rischiare colli di bottiglia o incappare in difficoltà di approvvigionamento delle forniture, come successo da febbraio in poi a molte aziende che hanno delegato la produzione in paesi asiatici”, conclude Calleri.
Sul tema digitale anche NAU! ha sviluppato una strategia articolata.
“Sicuramente durante il lockdown abbiamo avuto un boom di ordini”, mi dice Salvestrin. “E tuttavia, ancora prima del lockdown, la digitalizzazione rappresentava le fondamenta del nostro sviluppo. In questo ultimo bimestre abbiamo notato un ritorno nei nostri negozi. Ma la nostra strategia resta quella di creare un percorso fluido da off line a on line e viceversa. Penso al grande vantaggio del dropship: compri on line e vieni a ritirare nel negozio, senza spese di spedizione. Dall’altro lato poter contare su un e-commerce e una strategia digitale permette di raggiungere a costi bassissimi tutti i nostri clienti e potenziali clienti con campagne digitali mirate, su ogni tipo di target. Inoltre, conoscendo i gusti dei nostri clienti, grazie alla mappatura digitale ed il nostro programma di CRM, possiamo anticipare collezioni, capsule collection, variare uno stile e personalizzare davvero ogni singolo occhiale. Tutto questo con grande fluidità e prezzi facili, avendo logistica e produzione completamente integrati”, conclude Salvestrin.
Le manifatture italiane non rappresentano solo un fattore economico. Le tradizioni di ricerca e prodotto, l’impatto sul territorio, le sinergie che si vengono a creare con le filiere locali etc.. sono elementi che contribuiscono al successo delle produzioni attive sul territorio italiano. Quando si compra un prodotto 100% made in Italy è bene ricordare che vale tanto, perché alle spalle c’è un intera realtà che rischia e produce in conformità con normative e leggi sul lavoro, standard qualitativi e una sfida verso il futuro tutta aperta.
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