categoria: Distruzione creativa
Ma per davvero l’ufficio è morto? Forse no, lunga vita all’ufficio
Post di Emanuele Cacciatore, senior director di Oracle, e Nicola Comelli, co-founder Eggup –
Il Coronavirus determinerà la morte dell’ufficio? La domanda se la stanno facendo un po’ tutti. Il successo dello smart working, adottato in modo istantaneo e massivo su scala globale, ha dimostrato che il luogo di lavoro per antonomasia non è così decisivo come credevamo. Anzi, in più di un caso se ne può fare completamente a meno. Ma è proprio così? A tendere, possiamo immaginarci un mondo senza uffici? Senza sequele di stanze, sale riunioni, scrivanie e sedie?
In realtà, il dibattito sulla validità del concetto di ufficio nel mondo contemporaneo è in corso da un bel po’ di tempo. Tim Ferriss, nel 2007, uscì in libreria con il rivoluzionario “4 hours a week”, un volume nel quale ipotizzava la possibilità di lavorare non più di 4 ore a settimana, sfruttando al meglio la capacità della tecnologia di permettere a ogni lavoratore di esternalizzare tutti gli aspetti ripetitivi della sua mansione. Ferriss spiegava che si può immaginare un futuro nel quale assisteremo a un progressivo ricollocamento dei lavoratori dalle città alle periferie, dove la vita costa meno e la sua qualità è tendenzialmente migliore.
Lo scenario ipotizzato da Ferriss si interseca con uno dei grandi trend che caratterizzano il mondo del lavoro, ovvero la crescita esponenziale dei freelance. La Freelancers Union, la sigla che dal 1995 rappresenta i lavoratori autonomi americani, stima che nel 2019 il 35% dei lavoratori negli Stati Uniti potesse essere inquadrato come freelance. Un dato destinato a crescere. Si tratta di professionisti giovani e in possesso di competenze avanzate che, per lavorare, non sentono il bisogno di un ufficio. Almeno, non nel senso tradizionale del termine. Piuttosto, hanno bisogno di uno spazio “fisico” dove lavorare, che è una cosa diversa. Questa domanda ha generato il fenomeno del coworking che, a sua volta, si caratterizza per un mix tra ergonomia (la scrivania), community (l’insieme di quanti frequentano quell’ambiente) e contenuti proposti e scambiati all’interno della stessa community.
Il concetto di “workplace”, ossia di luogo di lavoro, ci può aiutare nell’immaginare l’ufficio dopo l’ufficio. Il numero crescente delle interazioni che caratterizzano l’attività professionale di tutti noi, abilitate dalla tecnologia, sta definendo una tridimensionalità del lavoro: lo spazio e il tempo sono affiancati ora anche dalle relazioni, fisiche e digitali. Il luogo dove lavoriamo, quindi, dovrà tenere conto di questa nuova dimensione, e interpretarla.
Lo smart working sperimentato nel corso della pandemia ha dimostrato che il luogo fisico in senso stretto perde di significato, mentre invece le relazioni sono diventate centrali. Paradossalmente, quindi, proprio lo smart working – che peraltro in Italia è stato spesso confuso con il lavoro da remoto – può rappresentare il punto di partenza per il ripensamento dell’ufficio così come lo abbiamo sempre inteso: meno importanza alla collocazione fisica e più centralità allo scambio e alla condivisione di contenuti e stimoli tra le persone.
Fino ad oggi, o almeno fino all’avvento del format di ufficio “free-flowing” diffuso dalle tech companies della Silicon Valley, l’ufficio è sempre andato di pari passo con la proiezione gerarchica che in esso si esprimeva. La nuova agilità del lavoro, invece, va a destrutturare proprio alcuni degli elementi più inattuali dell’organizzazione gerarchica (come il controllo sui lavoratori).
In questo senso quella che stiamo attraversando è una fase di transizione: il peso delle gerarchie è ancora troppo marcato; la diffusione delle pratiche di lavoro agile, invece, non è ancora sufficientemente matura.
Nel 1989 Paul David, un economista di Stanford, pubblicò un paper che investigava le ragioni per le quali le aziende faticavano così tanto ad adottare tecnologie informatiche. Per comprenderne le ragioni ripercorse quello che accadde circa un secolo prima con la corrente elettrica: David evidenziò che l’architettura delle fabbriche di allora era plasmata sui grandi motori a vapore centralizzati. Imprenditori e manager di allora provarono a integrare le ben più piccole dinamo in quelle configurazioni strutturali. L’operazione dava scarso successo e non permetteva alla nuova tecnologia di esprimere tutte le sue potenzialità. Sarebbero servite nuove fabbriche, disegnate in modo completamente diverso. E però, i proprietari erano riluttanti a nuovi, ingenti investimenti. L’analisi di David fa capire quanto l’inerzia conti quando si parla di innovazione, e poco importa se si parla di energia elettrica o nuovi modelli di lavoro.
E sono proprio i nuovi modelli di lavoro che potrebbero segnare la fine di una divisione che era stata introdotta nel dominio delle attività umane con la rivoluzione industriale all’inizio del XIX secolo: la divisione netta tra casa, come “luogo di consumo”, e fabbrica come “luogo di produzione”.
La progressiva sostituzione dell’industria domestica con il sistema di fabbrica è considerato, dagli storici dell’industrializzazione, uno degli elementi essenziali della rivoluzione industriale inglese. L’avvento del sistema di fabbrica cambiò, oltre che i metodi di produzione, anche le forme di organizzazione del lavoro e il rapporto fra l’uomo e il lavoro.
Questo mutamento degli ambienti e delle modalità di produzione e organizzazione del lavoro, questa “divisione dei luoghi”, che in Europa si sviluppò nell’arco di un periodo di circa 70 anni (1760-1830), è stata quasi cancellata nel giro di poche settimane, tra la fine di febbraio e la metà di marzo 2020. Con il work from home, la casa torna ad essere sia luogo di produzione che luogo di consumo.
L’analogia con la prima rivoluzione industriale può apparire forse azzardata, ma aiuta a comprendere la portata del cambiamento in atto.
In questo senso si può leggere l’iniziativa di Google di erogare ai suoi dipendenti un assegno da 1.000 dollari per trasformare un angolo delle loro case in uno spazio di lavoro, acquistando mobili, scrivanie, sedie ergonomiche e tutto l’occorrente per lavorare in modo confortevole.
Ma quindi, l’ufficio è morto? Potremmo rispondere che l’ufficio assumerà un profilo di volta in volta diverso in funzione del modello di lavoro che la singola azienda vorrà implementare. Dunque, parafrasando Mark Twain, possiamo dire che la notizia della morte dell’ufficio è, almeno per il momento, grossolanamente esagerata.
NOTE
[1] https://en.wikipedia.org/wiki/The_4-Hour_Workweek 
[2] The Dynamo and the Computer
[3]https://www.newyorker.com/culture/annals-of-inquiry/can-remote-work-be-fixed [
[4]https://www.rivistastudio.com/google-mille-dollari-smartworking/