categoria: Vicolo corto
South Working: il lavoro smart da Sud è utopia o possibilità concreta?
Non è stata la prima volta che “lavoravo agilmente” in Calabria, lontano dall’ufficio. Eppure, le sensazioni erano molto diverse. Mi sono sentito più tranquillo. Probabilmente perché nei precedenti pre-coronavirus tutti i colleghi erano in sede, mentre attualmente il lavoro agile è diventata regola a causa della pandemia. (con tanto di avallo normativo)
Tornato a Milano, mentre ero seduto nel salone del parrucchiere, questi mi ha chiesto come stessi lavorando. In smartworking, gli rispondo. «Eh, tanti miei clienti sono già da un pezzo nella seconda casa al mare… chissà cosa ne sarà di Milano.» Ho provato di nuovo quella sensazione, sicuramente molto condivisa in questa convulsa fase.
Non è un caso che si inizi a parlare di South Working, da un’idea del Palermo Hub di Global Shapers. Sono tanti i meridionali che iniziano a pensarci seriamente. Il fenomeno non riguarda solo le aree del Mezzogiorno. Si pensi a realtà lacustri o di montagna o alle tante aree interne soggette negli anni ad un progressivo spopolamento. E gli interrogativi non sono solo tricolori, ma di rilevanza globale. Cosa accadrà al mercato del lavoro il giorno in cui il virus sarà debellato?
Un articolo apparso sul The Economist del 30 maggio, si mostrava eloquente sin dal titolo. “Working life has entered a new era”, con tanto di anno zero (quello attuale) che dividerà il tutto tra BC (before coronavirus) e AD (after domestication). Una modalità di lavoro, quella dello smartworking, che da “concessione” di poche aziende illuminate si è trasformata d’un tratto nell’unico modo per far sopravvivere molte imprese in epoca di lockdown. Secondo l’autore, non sarà facile tornare nell’era BC. Perché ci sono elementi di vantaggio sia per i datori (risparmi sui costi) sia per i lavoratori (miglior equilibrio vita privata/lavoro).
Secondo un recente lavoro pubblicato sul NBER, sono tuttavia i lavoratori più qualificati e meglio retribuiti a mostrare migliori livelli di produttività nel lavoro da remoto. Ciò indica una possibile evoluzione circoscritta del fenomeno. Gli autori si interrogano altresì sulla durata dello smartworking nel post-coronavirus, indicando alcune ragioni a sostegno dell’ipotesi di cambiamento permanente. Una prima ragione sarebbe data dal fatto che le aziende hanno investito, a causa dell’emergenza, per rendere il lavoro da remoto funzionante e che, pertanto, possano avere interesse ad incrementarne l’uso. Una seconda ragione riguarderebbe invece il superamento, per via di necessità, dei problemi di ignoranza e coordinamento che limitavano l’utilizzo del lavoro agile prima del Covid-19. Secondo il 35% delle aziende intervistate, il 40% dell’attuale cambiamento verso lo smartworking sarà permanente.
L’argomento è stato oggetto di dibattito anche in un recente incontro virtuale del Festival dell’Economia, tra il direttore Tito Boeri e l’economista Enrico Moretti. Quest’ultimo ha ipotizzato due scenari.
Un primo molto dirompente, secondo il quale la maggior parte delle aziende opterà per uno smartworking permanente. In questo scenario, i colletti bianchi (ma non solo) potrebbero scegliere di vivere lontano dalle grandi città. Moretti fa l’esempio di una persona che lavorava a Milano e che si potrebbe trasferire in Sicilia, godendo di un costo della vita minore a stipendio costante.
Il secondo scenario è più temperato, nonché più plausibile secondo l’economista. Si tratta di uno scenario che prevede un mix equilibrato tra lavoro in ufficio e lavoro da remoto. “Non c’è ragione di pensare che le forze economiche accettino il declino delle città. Inoltre, appare improbabile che i lavoratori, trasferiti nelle aree rurali, rimangano attivi e creativi nel lungo periodo, rispetto a quelli che vivono nelle grandi città“. Secondo Moretti, attualmente ancora molti stanno lavorando su progetti nati prima dell’emergenza Covid-19. Questo potrebbe essere alla base dei buoni indicatori di produttività. Ma la distanza e l’isolamento riusciranno a garantire lo stesso livello di produttività e, soprattutto, di creatività a cui eravamo abituati e che, in fondo, rappresentano il carburante di un’economia di mercato?
Difficile dire cosa accadrà, ma nel mentre forse occorrerà iniziare a rifletterci. Il secondo scenario ipotizzato da Moretti appare effettivamente più plausibile nel breve periodo. Ma gli effetti nel lungo potrebbero essere più dirompenti. La sensazione è che sarà una questione di incentivi economici per i datori. (dato che l’opinione favorevole dei dipendenti sembra abbastanza consolidata) Probabilmente è ancora troppo presto per andare oltre le mere ipotesi e, come suggerito da Dario Di Vico, occorre dare il tempo alle aziende di capire l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro prima di tirare le somme o intervenire normativamente.
E quale destino avrà il South Working? La componente affettiva potrebbe giocare un ruolo importante nelle migliaia di persone rientrate a causa del Covid-19. Ma forse non sarà sufficiente. (non sembrano andare nella direzione giusta le prese di posizione contro il 5G per chi auspica un tale scenario…)
La domanda sul futuro dei rientrati è stata posta anche al ministro Giuseppe Provenzano, in una lettera sul Manifesto. La replica del Ministro è condivisibile su alcuni aspetti. Ma mi è sembrata un po’ deludente nella parte in cui si legge che: «Ora dobbiamo tornare a dare opportunità di lavoro anche nel settore pubblico, dirlo senza timidezze: riportare nello Stato la generazione esclusa è un grande investimento. È un impegno messo nero su bianco nel Piano Sud, servono da subito migliaia di giovani qualificati per garantire servizi e realizzare gli investimenti.» Fatico a pensare che ciò possa incentivare qualche cervello rientrato nel Mezzogiorno a restare in via permanente.
Come si potrebbe invece avere un’inversione di rotta ed interrompere l’esodo? Chi è rientrato non dovrebbe meramente sognare di restare mantenendosi al libro paga di Bologna o Milano. Dovrebbe tornare ad avere la necessaria fiducia per investire risorse economiche ed umane nel territorio di origine. Una sorta di finestra temporanea ed inaspettata che muta una prospettiva di vita da emigrati che sembrava ormai ineluttabile.
Una finestra da sfruttare prima che si richiuda.
Twitter @frabruno88