categoria: Vicolo corto
Smartworking soluzione definitiva? Macché, l’ufficio resta fondamentale
L’autore del post è Luca Bianchetti. Laureato in ingegneria e psicologia, ha un MBA. Ha fatto il consulente direzionale con società multinazionali, si è occupato di molti progetti di trasformazione e di ridisegno dei processi.
Tutti i lavoratori sono convinti smartworkers ormai, anche io. Ma facciamo un po’ di ordine, diamine. Non avremo mica trovato la relazione di lavoro perfetta così per caso, di colpo, no?
Ho espresso questo dubbio anche su Twitter e ho raccolto una quantità inattesa di risposte che mi hanno mostrato che gli smartworkers non sono come le famiglie felici, che lo sono tutte allo stesso modo. Sono quasi tutti felici, non sia mai, ma in modo diverso (e già questo mi conferma dei dubbi. È l’infelicità che ognuno ce l’ha a modo suo, si sa).
Tra le diverse categorie ho trovato, senza pretesa di esaustività:
– gli irritabili: nell’open space strillano tutti, non hanno rispetto, non salutano quando arrivano e qualcuno si mette anche le dita nel naso. C’è anche la variante ipocondriaci, che si fissano sul lerciume dell’ufficio e/o dei mezzi di trasporto
– i produttivisti del quartierino: prima perdevo un sacco di tempo nel traffico, ora sto molto meglio (eh, immagino)
– i multitasker domestici: qui il pensiero va alla mamma di America Oggi che tiene il bambino mentre lavora per il telefono erotico. (Era Jennifer Jason Leigh, Robert Altman, 1993)
– i pragmatici: adesso le riunioni cominciano e finiscono sempre puntuali, basta organizzarsi, siamo una squadra fortissimi
– quelli della PA: ci sono un sacco di dicerie su di noi, che invece lavoriamo regolarmente. Ah. Ce l’hai il PC? Uso il mio. Ti hanno dato i sistemi a casa? A me sì, perché ho insistito. E agli altri? Boh. Non ti serve più la carta? Quasi più, ma magari poi me la porti. (Una roba sicura, insomma).
Questi sono per lo più dipendenti, poi ci sono quelli più facilmente a fattura:
– gli eremiti: io sono anni che faccio coding, non ho mai incontrato nessuno. A che serve?
– gli esteti edonisti: hanno abbastanza soldi per un casa con vista, da cui scorgono la pensione anticipata. Chiamateli, se non rispondono subito vi richiameranno.
Poi incontro S.S. (le iniziali sono di fantasia) che dirige stoicamente una discreta aziendina che fattura un paio di centinaia di milioni e gli chiedo: sei tornato in ufficio? Sì. E sto molto meglio. Basta rotture a casa. E gli altri? Non vogliono tornare, ma col &!$?% che ce li lascio. Io li voglio tutti lì.
Right.
(Musica) Tutti pensarono dietro ai cappelli: lo sposo è impazzito, oppure ha bevuto.
Ma non è così che andrà.
(L’inquadratura si allarga, sale su, su, su. Si vede tutta Milano. E ritorna su un signore che parla, seduto davanti a una libreria. L’immagine è sgranata, dev’essere collegato con Zoom).
– Vede, il suo amico S.S. non ha poi tutti i torti. La vita organizzativa è il susseguirsi di oscillazioni tra due poli: il controllo e la delega, la pianificazione e l’adattamento, l’innovazione e il consolidamento. Che poi a voler ben vedere sono tutte versioni dell’ambivalenza di fondo, che c’è in tutti noi, tra l’attaccamento e l’esplorazione. Da bambini ci serve un posto sicuro dove ripararci e dove chiedere come si fa, ma ci serve anche allontanarcene e capire da soli come si fa. Fare in un altro modo, fare come ci pare a noi. Impariamo, troviamo il nostro modo, facciamo qualcosa in più, di nuovo. Ma anche scopriamo che non ne sapevamo abbastanza, o incontriamo qualcosa di brutto. E dobbiamo tornare a farci consolare. Poi ci tocca arrangiarci da soli, ma fino a un certo punto. Non tutti diventano grandi esploratori, quasi tutti replicano in qualche modo la situazione dell’attaccamento con una nuova famiglia, il lavoro, i maestri che stimano, qualcuno non la lascia quasi mai. Ma quasi nessuno vuole passare per mammone. Finisce per stabilirsi una giusta distanza. Che oscilla, appunto. In questo momento gli eventi hanno reso evidente che le persone si sanno regolare benissimo da sole. E questo va benissimo. Per anni abbiamo sentito i capi sostenere che le loro persone non sapevano farlo. Ora queste persone possono dire: hai visto che funziona? Facevi male a non fidarti. Ma è anche vero che lo dicono per difendersi da intrusioni, ovvero da interventi da parte di chi li coordina vissuti come rotture di scatole. Quello che sembra un conseguimento di autonomia è anche una chiusura e una protezione. Una fuga dall’organizzazione con tutto ciò che ne consegue, soprattutto in termini di evoluzione. Si generano una serie di capsule che continuano a interagire sostanzialmente attraverso i processi e le modalità in atto, ma con poca possibilità di crescere. Mentre dentro alla capsula ognuno si dichiara soddisfatto e rivendica la sua autonomia.
– Ma non è la nuova normalità? Non si genererà nel virtuale una nuova capacità di coordinamento più agile, migliore di quella di prima, che consentirà comunque alle organizzazioni di evolvere?
– Ma sì, certo. Per quanto non ami l’espressione nuova normalità, che viene di regola usata per somministrare una medicina un po’ amara evitando di farsi fare domande. Ci sono moltissimi aspetti positivi in questa situazione. E poi comunque non abbiamo scelta. Ormai è successo. Le cose si muovono attraverso l’adattamento, quasi mai c’è un mero ritorno al passato e succederà anche stavolta. Però voglio sottolineare che la rappresentazione dello smartworking che sta avendo tanto successo in questa fase è vista quasi interamente con gli occhi del coordinato e non del coordinatore. Sfugge quasi del tutto la prospettiva di insieme. Siamo nella classica situazione in cui il dipendente crede di poter fare a meno del capo semplicemente perché non ne capisce la funzione e beneficia della sua guida e della sua esperienza senza nemmeno accorgersene.
– Ma il capo non dovrebbe piuttosto imparare a fare meglio il suo lavoro, anche a distanza?
– E che cavolo, sì. Ma sono persone anche loro! Vogliamo lasciargli il diritto a un po’ di ansia? Hanno più dovere dei loro sottoposti di farsi carico delle cose, ma hanno bisogno anche loro di essere capiti e un po’ aiutati. Comunque questa lunga spinta a lavorare da casa ha eliminato molti pregiudizi e ha sicuramente fatto maturare i capi quanto i dipendenti. Sono ottimista. Ci sarà più smartworking di prima, fatto meglio e con meno infingimenti. Ma l’ufficio resterà fondamentale e non potrà mai essere residuale. I dipendenti devono farsene una ragione e sapere che saranno sempre in qualche modo vincolati alla forma tradizionale della presenza. Se per tutti fosse residuale nell’ufficio non si creerebbe mai una dinamica completa, ci sarebbero sempre gruppetti parziali troppo piccoli. Invece è necessario che si generino le dinamiche naturali degli incontri, i trasferimenti involontari e impliciti di informazioni, la conoscenza reciproca che consente di leggere il contesto e di leggere le intenzioni. Il contatto a distanza è sempre strutturato e finalizzato, perde un gran numero di elementi essenziali per la comprensione del clima, per capire se ci si deve fidare o no, se si deve intervenire o no, se c’è bisogno di aiuto e di che tipo. Di fare il capo, insomma. Il bravo capo. Senza contare che l’innovazione, di cui tutti siamo così smaniosi, viene da un mix sconosciuto di elementi e una parte di essi, di cui non si può fare a meno, non è preordinata e viene da un’interazione spontanea che produce un’illuminazione nel singolo e nel gruppo. È più difficile che tutto questo si verifichi a distanza.
– Almeno i lavoratori autonomi però, che erano già fuori dal coordinamento diretto, soffriranno meno le imposizioni di abitudini inutili…
– Sicuramente, ma dovranno stare attenti a non allontanarsi troppo. A non rendere troppo meccanica e distaccata la relazione. I clienti vedranno questa cosa come una snobberia e metteranno su una barriera psicologica, anche se magari sono proprio i primi a usare il formalismo. E si dimenticheranno di loro. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
– Eeee, professor La Peppa, se lo lasci dire, lei è un po’ irritante con tutti questi ma. Questi smartworkers non hanno diritto a un po’ più di fiducia?
– Eh, lo so, me lo dicono tutti. Ma le ricordo il fondamento eterno della relazione di lavoro: se mi paghi come dico io, lavoro come dici tu. Ma se lavoro come dico io, mi pagherai come dici tu.
Twitter @lbianchetti