Sostenere la domanda o le imprese? I problemi di un taglio dell’Iva

scritto da il 30 Giugno 2020

Il 23 giugno il Presidente del Consiglio ha espresso la sua volontà di considerare un “lieve intervento momentaneo” sulle aliquote Iva. In particolare, si è discusso di una possibile diminuzione delle aliquote di un punto (dal 22% al 21% per quella ordinaria, dal 10% al 9% per quella ridotta). La proposta ha immediatamente diviso la maggioranza, con il Movimento 5 Stelle da una parte apparso favorevole a un intervento da includere nella prossima Legge di Bilancio – effettivo dunque dal 2021 – con un orizzonte di due anni e il Partito Democratico dall’altra apparso scettico, a causa della complessità dell’operazione. Alcuni economisti, fra cui Guido Tabellini, si sono espressi in favore di un taglio temporaneo delle aliquote Iva, a fronte di un loro rialzo al termine della recessione. Massimo Bordignon spiega su lavoce.info come il carattere di temporaneità sia fondamentale per mantenere in equilibrio il bilancio pubblico e per stimolare efficacemente i cittadini ad anticipare e aumentare le spese, scongiurando una spirale deflattiva causata da un calo della domanda aggregata. Una soluzione di compromesso potrebbe risultare da una diminuzione dell’Iva applicata solo a quei settori dell’economia che maggiormente sono stati colpiti dalla crisi (turismo, artigianato, ristorazione, abbigliamento, automotive, ecc.). La proposta è stata avanzata sulla scia delle azioni recentemente intraprese dalla Germania, la cui Cancelliera Angela Merkel ha annunciato una diminuzione dell’imposta sul valore aggiunto dal 19% al 16% per i beni ordinari e dal 7% al 5% per i beni soggetti a tariffa agevolata. Tale diminuzione sarà, al contrario di quanto paventato dal Governo, applicata solo da inizio luglio fino al 31 dicembre 2020. Ma quali sono i costi e i benefici di una misura di questo tipo?

I conti dal Decreto Rilancio
Secondo la relazione tecnica del decreto Rilancio, una diminuzione dell’aliquota ordinaria dal 22% al 21% avrebbe un costo di 4,37 miliardi, mentre una diminuzione della aliquota agevolata dal 10% al 9% costerebbe poco meno di 2,9 miliardi, per un costo complessivo dell’operazione che si aggira intorno ai 7,3 miliardi all’anno. Se i costi diretti determinati da questa operazione sono facilmente calcolabili, i benefici per consumatori ed imprese lo sono meno. Una relazione Codacons ha stimato un risparmio annuo per le famiglie italiane di circa 4,5 miliardi, a parità di consumi e solo per gli effetti diretti – assumendo cioè che il taglio delle aliquote Iva venga trasmesso nella sua interezza in una riduzione dei prezzi al consumo e senza considerare la possibilità che si possa tradurre in un aumento dei consumi. In particolare, i risparmi sarebbero quantificabili in circa 250 euro annui a famiglia, con un picco di 400 euro annui risparmiati a famiglia per i nuclei più numerosi.

Queste analisi tuttavia non tengono conto di tutti i meccanismi in atto in seguito ad un taglio delle aliquote Iva. In primo luogo, i risparmi per le famiglie dipendono da quanto questo taglio si traduce in minori prezzi al consumo (il cosiddetto pass-through). A una diminuzione della aliquota Iva infatti le imprese possono rispondere lasciando i prezzi al netto dell’Iva invariati – trasferendo dunque ai consumatori i benefici del taglio delle aliquote in termini di minori prezzi al consumo e maggiori consumi – oppure aumentandoli fino a mantenere i prezzi al consumo invariati – rinunciando in questo caso a una maggiore domanda risultante da prezzi al consumo minori, ma accrescendo i margini di profitto su ogni singolo bene consumato. In questo secondo scenario, i benefici per i consumatori sono nulli e le risorse liberate attraverso il taglio delle aliquote Iva vengono catturate in toto dalle imprese.

Gli studi più recenti
Alcuni recenti studi accademici hanno provato a stimare l’effetto sui prezzi di un taglio delle aliquote e la porzione del valore aggiunto catturata dalle imprese. Benzarti, Carloni, Harju e Kosonen (2019) hanno studiato una riforma temporanea dell’Iva implementata dal governo finlandese, che nel 2007 ha tagliato l’aliquota di 14 punti percentuali per i negozi di parrucchiere, per reintegrarla interamente nel 2012. Tuttavia, il prezzo medio di un taglio di capelli in Finlandia si è ridotto solo del 6% nel 2007, ed è aumentato dell’11% nel 2012, con un conseguente aumento dei profitti che perdura nel tempo. Coerentemente, gli studiosi hanno individuato i negozi con bassi profitti marginali come responsabili di questo squilibrio. La risposta asimmetrica dei prezzi a una variazione dell’imposta sul valore aggiunto non è solo una prerogativa dei parrucchieri finlandesi. I ricercatori trovano lo stesso risultato analizzando tutte le riforme dell’Iva, strutturali e non, implementate in Europa dal 1996 al 2015: in media, i prezzi al consumo diminuiscono del 7% del valore della riduzione dell’imposta e rincarano del 34% del valore di un aumento. Questo risultato è sorprendente anche da un punto di vista accademico, perché la teoria prevede che l’incidenza sui prezzi non dipenda dalla direzione della variazione dell’imposta.

Ulteriori studi complementari hanno inoltre mostrato come maggiori profitti per le imprese derivanti dal taglio delle aliquote Iva non si traducano in maniera significativa in maggiori salari, assunzioni o pagamenti ai fornitori. Benzarti e Carloni (2019) osservano che nel 2009, a seguito di una riduzione dell’Iva sui ristoranti francesi dal 19,6% al 5,5%, i prezzi al consumo in questo settore diminuirono solo dell’1,3%. Comparando i ristoranti con altri settori che offrono servizi di mercato fuori dalla ristorazione (utilizzati dai ricercatori come gruppo di controllo), i due studiosi stimano che la riduzione dell’aliquota ha causato un aumento dei profitti del 24%, contro un aumento dei costi del lavoro e del materiale solo del 3,9% e 5% rispettivamente, e un effetto sulle assunzioni nullo. Sia nel breve che nel lungo periodo, i proprietari dei ristoranti sono i chiari beneficiari di questa riforma, catturando più della metà del surplus generato. Il beneficio per i consumatori diminuisce nel tempo, riducendosi dal 23,7% al 13,6%, a vantaggio dei lavoratori e dei fornitori, che migliorano di qualche punto percentuale le loro posizioni nel breve periodo (4,4% e 14,4% rispettivamente).

Chi trae i maggiori benefici
La ricerca economica ci suggerisce che le aziende catturano la maggior parte dei benefici di una riduzione dell’Iva in termini di maggiori profitti, e che il pass-through ai prezzi al consumo è limitato, soprattutto in quei settori caratterizzati da un’ampia presenza di piccole aziende dai bassi profitti marginali, come il turismo, la ristorazione e l’artigianato. La riduzione contenuta dei prezzi al consumo documentata da queste evidenze empiriche mette in discussione l’efficacia di questa misura nel generare il supporto alla domanda aggregata che ci si aspetta e che rappresenta l’obbiettivo di questa manovra, a maggior ragione se il taglio è di un solo punto percentuale. Tuttavia, il sostegno ai profitti delle aziende può essere giudicato positivo, nel momento in cui si traduce in maggior liquidità per quelle imprese particolarmente colpite dalla crisi economica generata dalla chiusura delle attività a seguito della pandemia. Vi sono però due osservazioni da fare. Prima di tutto, il governo ha già messo in campo 400 miliardi di prestiti alle imprese garantiti dallo Stato attraverso il decreto liquidità, varato ad aprile e diventato legge a inizio giugno. In secondo luogo, che una riduzione temporanea dell’aliquota dell’1% possa generare una profittabilità significativa è tutto da vedere. Usare una misura destinata a sostenere la domanda aggregata per aumentare indirettamente i profitti delle imprese non sembra una scelta sensibile, dal momento poi che lo sconto verrebbe applicato solo a partire dal 2021.

Un’accelerazione degli investimenti pubblici rappresenta probabilmente la soluzione più efficiente per stimolare la domanda, ma un taglio dell’Iva è più facile e veloce da implementare. Una possibile soluzione (e spiegazione all’incongruenza teorica del pass-through asimmetrico) è offerta da Chetty, Looney e Kroft (2009), i quali suggeriscono e documentano come la salienza di un aumento dell’Iva impatta quanto di questo aumento è passato ai consumatori per mezzo di prezzi al consumo più alti. Se ai consumatori è ben visibile la variazione dell’imposta, il pass-through tende a diminuire. Se vogliamo quindi che le aziende non aumentino i prezzi netti, sarà bene dare la massima visibilità al taglio dell’Iva proposto dal Governo.

Giulia Gitti

Bresciana, classe 1993. Dopo aver studiato Economia e Scienze Sociali in Bocconi, prosegue questo percorso di ricerca con un dottorato in Economics alla Brown University. È senior fellow del think tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

Andrea Cerrato

Torinese, 1994. Frequenta il PhD in Economics a UC Berkeley, dopo essere stato assistente di ricerca a Chicago Booth. Si occupa principalmente di economia geografica, economia del lavoro e macroeconomia. E’ Senior Fellow di Tortuga, tramite il quale pubblica questo contenuto.