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Agenda climatica, industria e benessere, ecco il nuovo trilemma
A inizio maggio Edward Luce sul Financial Times ha pubblicato un articolo il cui titolo era tutto un programma: It’s the end of globalism as we know it (and I feel fine). Secondo il giornalista la fine della globalizzazione era evidente già dal 2006. La crisi del 2008 aveva mostrato ulteriori cedimenti che avrebbero poi portato alla nascita di una proposta politica populista in molti stati. Luce ha scritto un libro su questo tema che parla del declino dell’ordine liberale occidentale.
Una tra le forze emergenti alla base del de-globalismo, soprattutto alla luce di quanto accaduto con la recente crisi, è la spinta verso la sicurezza economica. Nessuno, aggiunge il giornalista, vuole vivere in un mondo in cui la Cina controlla il 90% dei principi attivi dei nostri antibiotici e domina le attrezzature mediche, […] le catene di approvvigionamento si ritireranno”.
Il tema della supply chain rappresenta il punto cruciale. Il Giappone, ad esempio, ha già previsto nel suo pacchetto di rilancio post pandemia, alcuni incentivi per le aziende che vorranno portare fuori dalla Cina alcune operazioni. Nulla di ideologico. Si tratta solo di diversificazione del rischio. Anche negli USA misure simili sono in discussione. Secondo alcune stime del Fondo Monetario Internazionale, quasi il 75% dell’aumento degli scambi commerciali tra inizi anni novanta e 2010 erano legati alla crescita delle supply chain. Il reshoring da un lato aumenterebbe la sicurezza delle forniture, ma dall’altro potrebbe causare un aumento dei prezzi.
Dani Rodrik nella sua teoria del trilemma democrazia/globalizzazione/sovranismo, spiega perché sia possibile perseguire due obiettivi contemporaneamente ma non tutti e tre.
La pandemia pone sotto la lente di ingrandimento temi come la sostenibilità e l’agenda climatica globale. Se sostituissimo ai vertici del trilemma: 1) alla globalizzazione l’agenda climatica 2) al sovranismo l’industria nazionale 3) alla democrazia il benessere dei cittadini, otterremo alcuni spunti di riflessione interessanti.
La Cina ad esempio è il paese più inquinante al mondo. Supponiamo che decida di aderire agli accordi di Parigi. Dovrà cambiare le fonti di approvvigionamento, le sue centrali a carbone: una serie di regole internazionali dovranno regolare lo sviluppo economico nazionale cinese. È fattibile? E se a seguito di questa scelta i costi energetici aumentano e riducono il vantaggio competitivo cinese riducendone la capacità di export e l’occupazione? Il passaggio dalla povertà alla classe media avverrà in maniera più lenta e quindi anche il benessere dei cittadini si diffonderà più lentamente.
Probabilmente ad un povero importa di più non morire di fame che di inquinamento e non c’è nulla di sbagliato in questo. La scala di priorità e di valori è diversa. Mano a mano che la classe media si forma grazie alla riduzione della povertà, allora il benessere e non più la sopravvivenza inizia a diventare importante. Immaginiamo invece che la povertà scompaia e che i cittadini cinesi siano contenti del benessere raggiunto, che abbiano salari più alti ma il governo continui a perseguire un’agenda che ponga al centro l’industria nazionale, quindi con bassi costi ma fonte di forte inquinamento. È ragionevole pensare, che i cittadini spingeranno il governo ad adottare standard più elevati, in linea con l’accordo di Parigi.
Come scrive Luce, riprendendo in un certo senso l’adattamento dello “schema Rodrik”, dalla rivoluzione culturale il patto sociale non scritto della Cina è stato che la sua gente tollererà l’autocrazia fintanto che gli autocrati garantiranno standard di vita sempre più elevati. Ergo in un mondo di domanda inesistente (post pandemia) e in ritiro dalle catene di approvvigionamento globali, questo patto viene messo sotto pressione. La Belt & Road Initiative ad esempio ha lo scopo di creare un mercato di sbocco per l’export cinese. A tal proposito vale la pena menzionare come riportato dal Financial Times che, lo scorso aprile, 260 organizzazioni ambientaliste, hanno inviato una richiesta al ministro delle finanze in Cina al quale veniva richiesto di non salvare 60 progetti al di fuori della Cina legati proprio alla Belt and Road Initiative. Questi progetti risultavano sotto pressione nel nuovo scenario economico post pandemico ma soprattutto avrebbero causato danni ambientali, sociali o climatici.
Negli Stati Uniti la rivoluzione energetica e il paradigma industriale dello shale li ha resi “meno” dipendenti dall’estero. Prima della pandemia la crescita economica targata M.A.G.A. è avvenuta anche grazie all’energia a basso costo. L’attuale amministrazione ha intrapreso una serie di iniziative per favorire l’industria nazionale allontanandosi dagli obiettivi di una agenda climatica globale.
In Europa vediamo che un punto chiave del Green Deal è la carbon tax alla dogana, ossia le società non UE che esportano verso l’UE pagheranno tariffe di importazione aggiuntive. L’UE dovrà misurare il contenuto di carbon content dell’intero ciclo di produzione delle merci per definire l’onere fiscale per i singoli prodotti. Andrà verificato come queste ambizioni europee si confronteranno con regole del WTO. Il “protezionismo ambientale” europeo protegge la competitività delle sue industrie. Avendo delocalizzato in molti paesi con bassi standard su ambiente e diritti umani, ci si potrebbe aspettare un rialzo dei prezzi dei beni che poi i cittadini dovranno pagare. Quindi il trilemma vede agenda climatica e industria europea ma…attenzione al benessere dei cittadini! In questa infografica del Sole 24 Ore si può osservare come varia il Pil pro capite in Europa. Le tonalità dell’arancio sono sotto la media europea.
I tre cicli di “commoditizzazione” – conclusioni
Grazie ai progressi in ambito tecnologico ed energetico, i costi di trasporto e di comunicazione si sono abbassati. Ad esempio quelli del trasporto aereo si sono ridotti da 3.87 dollari per ton/km nel 1955 ad 1 nel 1970, per poi raggiungere gli 0.30 dollari per ton/km del 2004. In cinquanta anni i tempi medi di percorrenza delle merci su scala globale si sono ridotti del 400%: da 40 giorni nel 1950 a circa 10 nel 1998. Il livello medio delle tariffe per i paesi OECD passa dal picco del 20% del 1978, al 18% del 1986, al 10% del 1994.
Lo sviluppo della securitization come strumento finanziario, accoppiato ad altri strumenti come i derivati e altri sistemi di trasferimenti del rischio finanziario, è parte di una trasformazione globale del mercato finanziario, ossia una sorta di commoditizzazione finanziaria.
Negli ultimi decenni il costo del lavoro, del capitale e delle materie prime hanno visto un trend in discesa. Parlare di commoditizzazione del lavoro è assurdo ma qui su Econopoly è possibile leggere “una provocazione” al riguardo. In futuro potrebbe (almeno nel breve-medio periodo) non essere così.
Tra reshoring e transizione energetica l’inflazione potrebbe aumentare di nuovo. Con tassi di interesse minimi, un allentamento del quantitative easing e crescita del debito, forse l’inflazione potrebbe diventare una strada per gli Stati Uniti e le economie occidentali indebitate?
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