categoria: Res Publica
Per risolvere i nostri problemi dobbiamo rinunciare alla democrazia?
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Uno dei mantra di questi giorni è che l’emergenza covid possa diventare un’opportunità per rilanciare il paese. Speriamo. Ma non si può nemmeno escludere che questo refrain da magnifiche sorti e progressive rischi di tradire le promesse. E non sarebbe la prima volta.
In questi giorni si sono affastellati ben tre piani di rilancio del paese: quello della task force di Colao, quello del Governo e quello dell’Associazione Casaleggio. A quest’ultimo ho contribuito anch’io. Al di là del disorientamento che può derivare da tre piani diversi, i loro contenuti si assomigliano molto. Qualcuno potrebbe pure dire che sono un po’ ovvi: digitalizzare il paese, modernizzare le infrastrutture, proteggere l’ambiente, rafforzare il tessuto economico, sburocratizzare la pubblica amministrazione, investire in formazione e ricerca, tutelare la salute e i più deboli, sostenere il turismo e la cultura, riformare le principali leggi dello stato. Manca solo la pace nel mondo.
In realtà ciascuno di questi piani ha una sua fisionomia che non li rende totalmente sovrapponibili: quello della task force di Colao è il più analitico e contiene proposte di intervento specifiche, quello dell’Associazione Casaleggio propone una visione più di lungo termine e orientata alle trasformazioni strutturali della società, quello del Governo sembra accoglierli tutti in una pax romana democristiana. Forse le priorità di quest’ultimo potranno derivare dalle discussioni di questi giorni, sempre che la sua impronta benevola ed ecumenica non finisca per accogliere anche l’amicizia, la sincerità e il ripudio di tutto ciò che è “brutto”.
Non è la prima volta che partecipo a una campagna di raccolta di idee per il futuro del paese. L’ultima volta fu nel 2017, in un incontro organizzato da Fabrizio Pagani per il MEF. Anche allora emersero proposte che si possono ritrovare in questi piani. Sembra dunque che diverse formule per il rilancio del paese siano già note da tempo. Ma allora perché siamo ancora qui?
Si potrebbe sostenere che i diavoli (ma anche gli angeli) delle soluzioni stiano nei dettagli. Nei piani di oggi, per esempio, compare per la prima volta il termine “resiliente”: un tempo era usato solo nel lessico economico, poi è stato sdoganato nel lessico popolare da Gianluca Vacchi, il funambolico fantasista e maître à penser che svetta nei social network accanto a gente del calibro di Belen e dei Ferragnez. Forse è per questo che quando lo sento usare mi viene il riflesso condizionato di un gesto scaramantico altrettanto tipico della commedia italiana. Da quando Carmelo Bene ci ha poi mostrato come la recitazione deformi i contenuti non riesco a fare a meno di pensare che certi termini siano fatti apposta per declamazioni caricaturali.
Forse è per questo che Luciano Violante ha recentemente invocato un ritorno a una maggiore serietà e senso del dovere. Giusto. Ma io credo che occorra anche (e prima ancora) ritornare a un maggiore senso della realtà. Perché continuiamo invece a suonare come l’orchestrina del Titanic? Non ci è bastato vedere i paesi asiatici (ri)conquistare la leadership economica mondiale in pochi anni e gestire l’emergenza molto meglio di noi? Non ci basta vederli sulla frontiera dell’innovazione dei prossimi decenni? Quanto vogliamo ancora attendere prima di fare i conti con la realtà? Quando l’occidente si confrontava con il blocco dei paesi comunisti bastava che i russi mandassero un cane in orbita per scuotere le coscienze e provocare un’azione di contropiede energica e determinata. Adesso che cosa deve accadere?
La crisi dell’occidente non è più sui contenuti: non c’è più nessuno spettro del comunismo da combattere. Il nocciolo dei problemi di oggi non è più “cosa” fare ma “come”, “chi” e (sempre più anche) “perché”. Non per niente i piani di rilancio del paese sono molto simili. Ma da noi la politica si sviluppa su una polarizzazione che costringe a deformare la realtà per creare l’impressione che si possano fare “cose” diverse, quando in realtà c’è quasi sempre una sola soluzione razionale. Vediamo come avviene per alcuni dei principali problemi del nostro paese.
IMPRESA E LAVORO
La cultura del nostro paese si fonda sul principio che le imprese debbano farsi carico di molte delle disfunzioni del mercato del lavoro. Marchionne sosteneva che fosse una “concezione a dir poco anomala, che non esiste più in nessun paese civile del mondo […] che privilegia il posto di lavoro in sé, a scapito della crescita e della mobilità sociale, della formazione e dello sviluppo […] che non tutela davvero l’occupazione né i salari. Rende solo le imprese più deboli, perché blocca i processi di cambiamento e di rinascita che si generano naturalmente dal funzionamento dei mercati liberi”.
Leader politici di destra e di sinistra con senso della realtà – da Margareth Thatcher a Gerhard Schröder – compresero perfettamente che lo sviluppo di un paese moderno non può prescindere da un mercato del lavoro flessibile: “there is no alternative” dissero chiaramente. Per questo un rilancio del paese sostenibile non può che combinare la flessibilità del lavoro con ammortizzatori sociali di portata generale. Il reddito di cittadinanza (e ancor più il reddito universale) va in questa direzione, misure a macchia di leopardo e di irrigidimento dei rapporti di lavoro – come le varie forme di cassa integrazione in deroga e il decreto dignità – vanno invece nella direzione opposta.
MES E RECOVERY FUND
Il dibattito sul MES e in parte anche sul Recovery Fund si sviluppa su deformazioni della realtà ancor più surreali. Il fatto che gli oneri finanziari di questi strumenti siano molto convenienti è indubitabile. Ma alcune parti politiche sostengono che la “fregatura” si nasconda nella loro condizionalità. È utile ricordare che il governo Monti usò la stessa retorica per giustificare un’azione di governo di lacrime e sangue e impedire l’arrivo della famigerata Troika, che res melius perpensa ci avrebbe forse consentito di realizzare alcune delle riforme che non siamo riusciti a fare. Tant’è vero che dove è arrivata le cose sono andate decisamente meglio. Questi ragionamenti si fondano poi su due ipotesi: che i nostri leader sappiano impiegare le risorse meglio delle istituzioni europee e che i nostri concittadini ci credano pure. Peccato che ci siano molti indizi, se non prove, del contrario. Quindi la condizionalità potrebbe addirittura essere nel nostro interesse.
A prescindere da queste considerazioni, cosa vuol dire esattamente “condizionalità”? Nel MES sembra che ci sia una quota non condizionale riservata a investimenti nel settore sanitario. Ma un vincolo a un certo tipo d’impiego non è anche una condizione? In tal caso non esiste praticamente nessun finanziamento senza condizioni, tranne che, per l’appunto, nelle emissioni dei titoli di debito delle pubbliche amministrazioni, che infatti hanno sempre gestito le risorse molto male.
IMMIGRAZIONE E RAZZISMO
Il razzismo è l’ultima arma di distrazione di massa a esplodere dopo il movimento Me Too e Fridays for Future. Poco importa che le proteste abbiano avuto origine nell’unico paese OCSE ad avere avuto un leader nero, e che continua ad avere leader neri in gran parte delle sue istituzioni. Poco importa se i popoli occidentali sono quelli meno razzisti al mondo: meno degli asiatici e decisamente molto meno degli arabi e degli stessi africani. Non basta: occorre anche dar fuoco alla furia iconoclasta e alla damnatio memoriae della nostra storia.
Certamente restano ancora molti problemi di razzismo, ma è questo il modo di superarli? Non si rischia forse di alimentare conflitti controproducenti, piuttosto che una società più inclusiva?
La stessa deformazione della realtà alimenta anche il dibattito sull’immigrazione. È evidente che nessun paese al mondo possa sopravvivere senza governare i flussi migratori. Non solo in entrata, ma anche in uscita. L’Italia si distingue, per esempio, per un’immigrazione non qualificata e un’emigrazione (più) qualificata. Questa situazione dovrebbe spaventare chiunque abbia a cuore il futuro del nostro paese, a prescindere dal senso di pietà per stranieri impreparati che cercano un futuro migliore in casa nostra e di dispiacere per i connazionali talentuosi che fanno altrettanto andandosene altrove. La gestione di questi flussi dovrebbe dunque essere dettata da valutazioni più razionali della pietà e del dispiacere. Altrimenti siamo fritti. Solo da noi, poi, il rispetto delle regole in quest’ambito sembra essere diventato un’opinione come un’altra. E quindi va bene che paesi esteri come Malta e ONG come Sea Watch se ne infischino spernacchiandoci.
INNOVAZIONE, ETICA E PRIVACY
Sul fronte dell’innovazione la deformazione della realtà è accentuata dall’incompetenza. È ormai chiaro che la Cina voglia dominare tutte le nuove frontiere dell’innovazione: batterie, fotovoltaico, intelligenza artificiale, genetica, biotecnologie, missioni spaziali, alta velocità, eccetera. Su molte di queste frontiere lo sviluppo dell’occidente è frenato da vincoli di natura ideologica: dalla ricerca genetica (soggetta a vincoli di natura etica) al sostegno dei settori emergenti (soggetto a vincoli fondati sul dogma della concorrenza) all’intelligenza artificiale (soggetta a vincoli di privacy).
Questi vincoli possono incidere non solo sul nostro sviluppo, ma anche sulla nostra capacità di ripresa. Bonomi di Confindustria tuona contro l’incertezza delle regole sul contact tracing, che è probabilmente l’unico strumento capace di conciliare la ripresa con la tutela della salute. E ha ragione. In questa vicenda l’incomprensione del nocciolo del problema è sconcertante: oggi le imprese tecnologiche dispongono di informazioni molto più ampie, invasive e accurate per fornire servizi decisamente più voluttuari. C’è qualcuno che se ne è accorto? A prescindere da questo doppio standard di tutela della privacy, è indubbio che qualsiasi vincolo sull’innovazione sia non solo vano, ma anche, semmai, destinato a favorirla nei luoghi dove incontra meno resistenza. Uno scoglio non può dunque arginare il mare dell’innovazione, ma può prosciugare il lago in cui si forma deviando il corso del fiume che vi si immette.
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In tutti questi (e altri) problemi la falsificazione della realtà si combina con la sostanziale incapacità di perseguire strategie di lungo termine, poiché la governance dei paesi occidentali non è compatibile con progetti che si sviluppano su archi di tempo superiori alle legislature, quando i tempi non sono ancora più brevi, come nella politica italiana.
Dunque sembra che i problemi del rilancio del nostro paese (ma anche altri paesi occidentali) discendano più dalla governance delle decisioni politiche che dai contenuti dei piani. Si è visto come la governance dei sistemi democratici costringa a una deformazione della realtà funzionale alla polarizzazione elettorale e non consenta di perseguire strategie di lungo termine. Un recente articolo dell’Economist evidenzia come le élites cinesi considerino ormai l’America un paese in declino e Trump come “sintomo e agente di tale declino”. È probabile che pensino lo stesso delle pagliacciate dei leader politici di molti altri paesi occidentali. È curioso come le stesse élites che un tempo cercavano di scappare nei paesi occidentali, adesso li compatiscano e li disprezzino.
Per risolvere i nostri problemi dobbiamo dunque rinunciare alla democrazia? Speriamo di no, ovviamente. Ma per evitare brutte sorprese sarebbe almeno opportuno riformarne l’impianto di governance, che non è mai stato toccato negli ultimi due secoli.