Il conflitto al lavoro: tra esercizio del potere, persuasione e negoziazione

scritto da il 21 Giugno 2020

Le considerazioni di questo post prendono le mosse dalle righe, molto interessanti, proposte da Luca Foresti proprio su questo blog, ormai quasi due anni fa nel suo “Evviva il conflitto (se gestito bene!)”. Vi propongo una visione complementare, che parte da una definizione simile, ma vuole darne una visione più strutturale che comportamentale, nel tentativo di illuminare il tema da un versante diverso e continuare ad alimentare il dibattito (visto che di conflitto ho il timore che sentiremo spesso parlare, nei prossimi mesi).

Il tema è centrale nella vita di un team, tanto che questo termine suscita, in chi gestisce e coordina persone, una reazione che oscilla spesso tra fastidio e timore. Gestire un conflitto, insomma, è una di quelle attività che molti preferirebbero evitare. In realtà, però, conflitto, per chi si occupa di analizzare le dinamiche che innervano la vita di gruppi e organizzazioni, è un termine neutro, né positivo né negativo. In questo contesto, scelgo una definizione che mi pare ricca di conseguenze da un punto di vista pragmatico e operativo:

Esiste un conflitto quando esistono assetti motivazionali contrastanti in un contesto di interdipendenza e di scarsità di risorse, da cui consegue che la soddisfazione di un desiderio o di un bisogno da parte di un soggetto entra in contrasto con i desideri ed i bisogni di un altro soggetto.

Da questa definizione deriva una prima, importante, conseguenza: una certa quota di conflitto è fisiologica (vorrei dire “strutturale”) in un gruppo o in un’organizzazione. I diversi ruoli che costituiscono un organigramma con un minimo di complessità, infatti, presentano strutturalmente assetti motivazionali contrastanti e, di conseguenza, un potenziale conflitto. Un esempio per concretizzare questa definizione e le conseguenze che porta con sé: in un’azienda che sviluppa software gestionali esistono, tra gli altri, due tipologie di ruoli:

– i commerciali: il loro compito è contattare i potenziali clienti, persuaderli della bontà della soluzione, stipulare i contratti e garantire così all’azienda entrate e fatturato;
– gli sviluppatori: il loro compito è implementare le funzionalità del prodotto e mantenerlo aggiornato rispetto alle esigenze normative ed organizzative dei clienti.

Questi due ruoli presentano assetti motivazionali fisiologicamente e strutturalmente contrastanti rispetto, per esempio, al tema della personalizzazione del software per ciascun cliente. L’assetto motivazionale dei commerciali si potrebbe, infatti, sintetizzare nella frase “personalizzare il più possibile”.

In questo modo il cliente vedrà rispecchiati nel software la sua organizzazione ed i suoi processi, ne verrà rassicurato e sarà facilmente convinto ad acquistare il prodotto.
L’assetto motivazionale degli sviluppatori, al contrario, sarà teso a mantenere il prodotto il più possibile vicino allo standard.

Così facendo, qualsiasi nuova funzionalità sarà facilmente integrabile, si continuerà a garantire la scalabilità del prodotto, eventuali cambi di versione saranno gestiti in maniera standardizzata e, quindi, con uno sforzo incomparabilmente minore rispetto ad avere innumerevoli versioni personalizzate del prodotto, che richiederebbero interventi ad hoc.

Oltre agli assetti motivazionali contrastanti, sono presenti anche le altre due caratteristiche della relazione conflittuale: interdipendenza (senza gli sviluppatori i commerciali non potrebbero vendere, e viceversa) e scarsità di risorse (la capacità di sviluppo è limitata per definizione, se così non fosse non ci sarebbe dubbio sulla possibilità di soddisfare qualsiasi richiesta di personalizzazione).

Nessuno dei due assetti motivazionali, peraltro, è errato di per sé: entrambi hanno ragioni solide ed una finalità condivisibile (la prosperità e la crescita dell’organizzazione).
Questo fatto mi porta ad esplicitare la seconda conseguenza della definizione che ho condiviso: una certa quota di conflitto non solo è fisiologica. È anche “sana”.
Se, infatti, prevalesse il solo assetto motivazionale di una delle due parti, probabilmente la sopravvivenza di quella organizzazione sarebbe messa a forte rischio.

Personalizzare il più possibile senza contro-bilanciamenti porterebbe, infatti, ad un proliferare eccessivo di versioni pressoché uniche del pacchetto software che generebbero, nel momento in cui dovessero essere implementati cambiamenti o dovesse esserne realizzata una nuova versione, un carico di lavoro tale da mettere in discussione forse anche la continuità dell’azienda.

Dall’altra parte, il prevalere esclusivo dell’assetto motivazione degli sviluppatori (mantenere il prodotto il più possibile vicino allo standard) porterebbe ad avere in portafoglio un prodotto molto semplice da gestire, ma difficilissimo da vendere, visto che la sua rigidità lo farebbe percepire come distante dalle esigenze delle organizzazioni che dovrebbero utilizzarlo.

Il fatto che convivano due assetti motivazionali contrastanti, in questo caso, proprio perché entrambi sono motivati e ben contestualizzati, è una risorsa utile per trovare una soluzione che ne contemperi in maniera efficace i bisogni e gli obiettivi.

Certo, qui iniziano anche le difficoltà.

Le domande, infatti, diventano:

– Come trovare una soluzione al conflitto che sia condivisa da un lato (possa, cioè, incassare il consenso di entrambe le parti) e produttiva dall’altro (permetta di raggiungere l’obiettivo comune dello sviluppo dell’organizzazione)?
– Come evitare che quel conflitto degeneri ed impatti negativamente sulla relazione tra gli attori?

Potere, persuasione, negoziazione

Per rispondere a queste domande, è utile innanzitutto dettagliare quali siano le modalità con cui si possono “mettere le mani” in un conflitto, premettendo che spesso la soluzione (specie se si tratta di un conflitto complesso) è il frutto dell’applicazione di un mix di queste tre diverse possibilità.

Queste modalità sono tre:

1. esercizio del potere
2. persuasione
3. negoziazione

Esercizio del potere
Se una delle parti detiene un potere sull’altra, può esercitare questo potere e imporre la propria soluzione del conflitto senza il bisogno di sottoporla ad alcuna valutazione o vaglio della controparte. Tornando alla società di sviluppo software del nostro esempio, il CEO dell’azienda (di estrazione commerciale), potrebbe fare leva sulla propria posizione per imporre una soluzione: “In questa azienda si fanno tutte le personalizzazioni richieste dal cliente e non intendo discutere ulteriormente su questo punto”. Così facendo egli avrebbe imposto la propria soluzione senza dare spazio agli argomenti degli sviluppatori, espressioni del loro assetto motivazionale.

Persuasione
Si adotta questa soluzione quando una delle parti tenta di “vendere” all’altra la propria soluzione del conflitto, cercando di argomentare in modo da convincerla che quella è la soluzione più produttiva. Nel nostro esempio, se i commerciali argomentassero agli sviluppatori i motivi per cui si debba personalizzare il più possibile al fine di penetrare un mercato molto competitivo nel quale le aziende concorrenti sono in grado di offrire al cliente “soluzioni su misura” e gli sviluppatori venissero convinti da queste argomentazioni, quel conflitto sarebbe stato risolto attraverso la persuasione. In questo caso non c’è più un’imposizione, ma un processo argomentativo al termine del quale una delle parti riesce a convincere l’altra che la soluzione da lei portata al tavolo è la più vantaggiosa e produttiva.

Negoziazione
Al contrario delle due modalità precedenti, la negoziazione è un processo nel quale la soluzione del conflitto si genera attraverso e dentro la relazione tra le parti.

Le definizioni date di esercizio del potere e di persuasione, infatti, hanno in comune il fatto che la soluzione è quella che una delle parti ha portato al tavolo (nel primo caso viene imposta, nel secondo “venduta”). Nella negoziazione, invece, nonostante le parti arrivino al tavolo ciascuna con le proprie posizioni, valori e interessi, la soluzione verrà generata attraverso l’interazione e sarà una soluzione diversa rispetto a quella prospettata da ciascuna delle parti in gioco.

Solo una nota a margine di quest’ultima definizione. Spesso, nel linguaggio comune, si confondono negoziazione e persuasione: nel caso in cui una delle parti arrivi al tavolo con l’intenzione di convincere l’altra della bontà della propria soluzione, non si è di fronte ad un processo negoziale, quanto piuttosto di persuasione. Non che ci sia qualcosa di sbagliato: da qui in avanti argomenterò come tra queste tre soluzioni non ce ne sia una da preferire in assoluto. Certo, si tratta di soluzioni molto diverse dal punto di vista delle tecniche da adottare e, pur nella consapevolezza che un conflitto complesso potrebbe richiedere un mix di queste diverse modalità di soluzione, è bene, in ogni fase del processo, sapere con esattezza su quale si stia facendo leva, al fine di applicare le metodologie più efficaci.

La questione successiva è, quindi, quella di discriminare in quali circostanze debba essere usata ciascuna di queste modalità.

Parto, per comodità, dall’ultima: la negoziazione.

Nei contesti organizzativi si negozia in due casi:
– il primo, il più banale e forse anche il più comune: quando ci si è costretti. Non si ha un potere sufficiente per imporre la propria soluzione e non si trovano argomentazioni abbastanza impattanti per persuadere la controparte. Non resta, quindi, che una modalità possibile; la negoziazione, appunto;
– il secondo, più interessante: quando si sceglie di negoziare, pur detenendo un potere ed avendo la possibilità di esercitarlo, oppure sapendo di avere delle argomentazioni persuasive, nella convinzione che una soluzione che si generi dall’interazione fra i soggetti possa essere migliore rispetto a quella portata al tavolo da una sola delle parti (fosse anche la mia).

La decisione di negoziare, quindi, non deriva da una costrizione, ma dalla scelta di quest’ultima modalità come più efficace nella soluzione dello specifico conflitto che ci si trova ad affrontare.

Questa migliore efficacia, a sua volta, può manifestarsi su due piani (che non si escludono l’un l’altro):
– sul piano del contenuto: il CEO dell’azienda del nostro esempio potrebbe scegliere di negoziare nella convinzione che, facendo interagire commerciali e sviluppatori, emergerà una forma di personalizzazione del software che consenta di venire incontro ai clienti salvaguardando, però, la solidità e la scalabilità del prodotto. La scelta di negoziare, in questo caso, implica quella dose di umiltà di chi ammette di non avere necessariamente in tasca la soluzione migliore. Per questo motivo, sceglie la negoziazione come strumento pur avendo a disposizione anche il potere o la persuasione.

L’obiettivo del processo negoziale diventa, quindi, di permettere alle due controparti di esprimere al meglio gli interessi che sostanziano l’assetto motivazionale, al fine di trovare aree di convergenza tra questi ultimi e salvaguardare il più possibile le priorità di ciascuna.
Nel nostro esempio, l’obiettivo sarà quello di trovare forme di personalizzazione che, se da un lato consentono al cliente di percepire la vicinanza del prodotto alle sue esigenze, dall’altro non compromettano troppo l’architettura di base del software così da consentire un aggiornamento non troppo complesso.

– sul piano della relazione: in questo caso, si sceglie di risolvere il conflitto attraverso la negoziazione non per avere una soluzione migliore, ma piuttosto per non fare sentire la controparte oggetto di un’imposizione (potere) o di una manipolazione (persuasione), nella convinzione di alimentare così una relazione migliore e più costruttiva per il futuro.
In questo secondo esempio l’obiettivo di chi decide di sedersi al tavolo negoziale è ben diverso: non si tratta tanto di far esprimere la controparte e le sue motivazioni quanto di trovare un modo per risolvere il conflitto che, pur coinvolgendo nella decisione chi sta dall’altro lato del tavolo, non porti ad una soluzione che si allontani troppo dall’idea iniziale. La percezione è, quindi, quella di dovere sacrificare qualcosa sull’altare della relazione con la controparte.

Le tecniche per minimizzare la distanza tra la soluzione iniziale e quella che uscirà dall’interazione con la controparte sono:

– la delimitazione del campo negoziale. Il CEO dell’azienda potrebbe dire: Siamo qui per decidere insieme come personalizzare il nostro software sulla base delle esigenze dei clienti. Faccio notare come questa affermazione escluda l’opzione di non personalizzare per nulla: non si deciderà se, ma come.

– l’eventuale delimitazione delle opzioni: Siamo qui per decidere insieme quale tra queste tre modalità di personalizzazione adottare. In questo caso, chi propone le soluzioni mantiene un controllo molto stretto sul processo negoziale, visto che il frutto dell’interazione tra le parti non potrà che essere una delle soluzioni già previste (che rappresenteranno, naturalmente, dei sub-ottimi accettabili). L’errore da evitare è quello di delimitare troppo il campo di partecipazione, rischiando così di scoprire il gioco e, paradossalmente, ottenere un peggioramento invece che un miglioramento della relazione.

Venendo alle altre modalità di soluzione del conflitto, a questo punto, per differenza:
– si sceglie la persuasione quando si è convinti che lo scambio non porterà a generare soluzioni migliori dal punto di vista del contenuto, e si può assumere il rischio che la controparte si senta manipolata o perché la probabilità che questo avvenga è bassa, oppure perché la relazione con la controparte non è determinante per il futuro;
– si sceglie l’esercizio del potere quando si è convinti che lo scambio non porterà a generare soluzioni migliori e si può assumere il rischio che l’imposizione di una soluzione impatti negativamente sulla relazione, sempre per gli stessi motivi visti sopra.

Anche il fattore tempo, infine, potrebbe impattare sulla decisione, visto che persuasione e negoziazione sono senz’altro processi più lenti e laboriosi rispetto all’esercizio del potere.

Spero, con questa sorta di “tassonomia” delle modalità di soluzione del conflitto, di aver stimolato qualche pensiero utile a chi, vivendo le dinamiche dei gruppi di lavoro, si trova, volente o nolente, ad affrontare questo tema.

Twitter @lucabaiguini

(Questo post è un adattamento di uno dei capitoli del mio libro Compito e Relazione. Idee e metodi per gestire efficacemente un team)