categoria: Vicolo corto
Professionisti e precari, una bomba sociale (ancora) inesplosa
Autrici di questo post sono Mari Miceli, analista giuridico, e l’avvocata penalista Valentina Restaino, componente della direzione nazionale di MGA sindacato nazionale forense –
L’emergenza Covid19 ha rilevato tutta la precarietà del lavoro a partita iva, professionale e non, ordinistico e non ordinistico.
Nel tempo la politica si è dimostrata miope dinnanzi alla crescente crisi economica che ha colpito la maggior parte dei liberi professionisti: crisi che oggi grazie all’emergenza sanitaria è – parzialmente – riaffiorata. Insomma, nascondere la polvere sotto il tappeto non è mai una brillante idea: prima o poi viene fuori.
Così, accanto alla precarietà e ad un crescente impoverimento, ci si è cominciati ad accorgere della mancanza – quasi totale – di welfare.
Il tema del lavoro autonomo e del lavoro precario, del lavoro autonomo impoverito, sono stati ampiamente dimenticati da tutto il dibattito politico degli ultimi tempi: degli ultimi anni addirittura. Da quando con il governo Renzi si parlò di jobs act del lavoro autonomo, poi radicalmente dimenticato; da quando la CGIL produsse il suo statuto universale dei lavoratori (che negli intendimenti del sindacato confederale avrebbe dovuto riguardare anche il lavoro autonomo), nessuno nel panorama politico nazionale ha più aperto una discussione organica e seria sul tema. I partiti stessi della sinistra cosiddetta radicale hanno continuato ad essere assolutamente miopi in argomento: quasi convinti, senza ammetterlo, che il lavoro autonomo sia per ciò stesso un lavoro ‘ricco’ e non bisognevole di tutele.
Non sta fuori da questo perimetro nemmeno il lavoro forense.
Gli interventi emergenziali ed inadeguati del Governo, fra attese, burocrazia e ingiustizie sostanziali, rendono, se fosse ancora necessario, vieppiù palese un tema: gli avvocati a reddito basso e medio sono lavoratori precari, il cui reddito può interrompersi da un momento all’altro, per accidenti personali o per una pandemia inimmaginabile poco importa. Resta il dato che esiste una schiera di lavoratori – nell’immaginario comune e politico purtroppo ancora ricchi – che, invece che essere i produttori di ricchezza nazionale che si millanta, vivono alla giornata, e per i quali 600 euro in un mese possono fare la differenza fra la sopravvivenza e la fine.
Se ne è accorta Cassa Forense, che dopo anni di lotte per la prima volta, dopo aver dovuto anticipare anche solo per un mese il reddito di ultima istanza previsto per tre mesi, ha iniziato a ragionare su di sé e sulla sostenibilità del proprio sistema. Se ne sono accorti gli avvocati stessi, divisi in tre macro gruppi: gli sprezzanti, benestanti attestati su redditi più che buoni, che non hanno risparmiato accenti di disapprovazione per i percettori del bonus; i proletari, quelli che non hanno avuto remore a rendere palese quanto quei 600 euro fossero essenziali per la vita; e gli stupiti, quelli che hanno finto di cadere dal pero e di scoprire solo oggi la realtà di una categoria impoverita e giunta ad un bivio.
A fronte di questa realtà oramai troppo palese per essere nascosta sotto il tappeto si può, quindi, reagire in diversi modi. Il più miope di tutti è quello forse più comune nel primo macro gruppo: un anacronistico inneggiare alla perfetta autoregolamentazione del mercato, che invece ha rivelato mai come in questo momento la sua fragilità, ad una livella darwinistica destinata ad espellere i ‘non meritevoli’ (per farne cosa, non si sa: ma la fede di costoro è grande, e restano certi che i sommersi troverebbero qualche modo di sopravvivere: è evidente che nella mente di costoro il Novecento non è morto ancora).
Miope perché se fra i nuovi poveri si trovano persino gli iscritti agli ordini ‘castali’, non ci vuole molto a rendersi conto che siamo alla presenza di una bomba sociale inesplosa (per il momento). Che non sarà il welfare pauperistico a pioggia del Governo Conte a disinnescare.
La crisi dei redditi degli avvocati, già in corso da anni e anni, con l’emergenza Covid non solo si aggrava: è destinata – considerato il permanente lockdown dei tribunali – a divenire vieppiù allarmante per gli anni a venire.
E con essa la crisi dei redditi degli architetti, degli ingegneri, dei commercialisti: di coloro, insomma, che non hanno stipendio, che non hanno nessuno a garantire (o lo Stato per loro con la cassa integrazione) il mese di vita.
E il Governo, mentre ha scelto solo sussidi tampone (non risolutivi di una crisi strutturale) per questo esercito di professionisti affamati, contestualmente taglia l’IRAP – con il decreto Rilancio – alle imprese con fatturati fino a 250 milioni di euro all’anno: proprio quell’IRAP che, per larga parte, serve a finanziare la sanità che ha mostrato, con il coronavirus, tutti i suoi limiti.
Insomma: a meno di non voler incoscientemente continuare a sostenere che muoia chi deve morire, si deve immaginare qualcosa di diverso da un bonus una tantum, che finirà col mese di maggio o poco più, lasciandoci fra i marosi di una crisi senza precedenti.
Diversamente, come ha segnalato la ministra Lamorgese, in uno dei suoi rarissimi interventi durante il lockdown, dovremo aspettarci sommovimenti sociali impensati, non solo fra i reietti, ma anche in quella che fu la media borghesia e che oggi è popolo affamato, piaccia o meno dirselo.
La questione della debolezza reddituale dei lavoratori autonomi professionali, quindi, assume parecchie sfumature di significato a causa delle implicazioni non sempre positive che la regolamentazione legislativa e fiscale ha comportato nell’ultimo ventennio. In molte circostanze, infatti, il lavoro autonomo si è trasformato in precariato, indebolendo la posizione del professionista, non garantendo al Paese la produttività di cui ha bisogno e mettendo in discussione la stessa figura professionale.
Esiste una reale asimmetria salariale e sociale, asimmetria che determina naturalmente un diverso accesso al sistema di welfare, agli ammortizzatori sociali ed alle tutele costituzionali garantite.
L’emergenza sanitaria ha rilevato un’amara verità: la mancanza di welfare state, e il fatto che la differenza di trattamento economico e sociale sia diventata troppo significativa. Manca un vero e proprio ambito di tutele e forme di assistenza che vadano oltre la presenza del servizio sanitario e dell’istruzione pubblica, funzioni statuali che siamo abituati a riconoscere quando si parla di Stato Sociale: in tal senso ad oggi, i principi tanto dichiarati sono stati per lo più disattesi.
Twitter @micelimari1