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Chi tifa per il protezionismo guardi al costo esorbitante per l’Italia
Nessuno che abbia a cuore la buona salute della nostra economia dovrebbe mai utilizzare, nel dibattito pubblico, termini come protezionismo, dazi, barriere commerciali, tariffe. Queste parole, e quindi i pensieri che incorporano, sono veleno per la nostra costituzione economica, che diventa tanto più sana quanto più si mostra capace di respirare l’aria aperta dell’economia internazionale.
Basterebbe osservare come i progressi del settore esportatore abbiano giovato alla nostra economia nell’ultimo decennio, per averne contezza. Ma chi volesse regalarsi uno sguardo più lungo, può spendere qualche minuto e leggere un breve approfondimento contenuto nell’ultima relazione annuale di Bankitalia dedicato proprio all’esame dei costi, per l’Italia, delle politiche protezioniste. Un’analisi che risale fino al 1870, ossia dall’inizio di una delle tante globalizzazioni avvenute nella storia interrotta dallo scoppio della prima guerra mondiale.
Gli studiosi hanno elaborato un indice che quantifica il costo del commercio internazionale per il nostro paese che è “una misura sintetica dell’ampio spettro di costi che ostacolano gli scambi internazionali (dazi, barriere non tariffarie, oneri amministrativi)”. Il grafico sotto sintetizza i risultati.
Come si può osservare, questi costi a partire dalla data convenzionale si riducono gradualmente fino alla crisi degli anni ’80 del XIX, quando i torbidi economici fecero spuntare fuori le solite pulsioni protezioniste, che tuttavia furono tenute a bada dal fiorire di accordi bilaterali. In qualche modo ciò fece proseguire il trend ribassista. Il risultato fu la Belle Époque e lo sviluppo di quel mondo che Keynes ricordava con nostalgia nelle prime pagine del suo libro Le conseguenze economiche della pace.
Il primo dopoguerra segnò una profonda rottura delle relazioni internazionali, malgrado diversi e ripetuti tentativi di far rivivere l’internazionalizzazione del passato – ad esempio ripristinando il gold standard – che condussero alla crisi del 1929 dalla quale l’ondata protezionista trasse notevole nutrimento.
Ed ecco perché, nella parte centrale del grafico, l’indice dei costi commerciali prende forza e s’impenna, fino ad annullare del tutto, negli anni Trenta, i progressi fatti dal 1870 in poi.
Ci vorrà un’altra guerra e soprattutto un altro dopoguerra per smantellare l’architettura protezionista che aveva congelato beni, servizi e capitali dentro le frontiere degli stati. A partire dagli anni ’50, con la progressiva convertibilità valutaria e la nascita del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) e della Comunità europea, dopo l’esperienza molto positiva dell’Unione europea dei pagamenti, gli scambi tornano a fluire. La globalizzazione di marca americana, che prende il posto di quella britannica del XIX secolo, prende slancio. Fra una crisi e l’altra arriviamo agli anni ’80 quando si tocca il minimo della curva discendente dei costi commerciali dove, fra brevi saliscendi ci siamo trovati anche all’inizio del nuovo secolo.
Perché questo indice ci interessa direttamente? Bankitalia lo spiega con chiarezza. “Al graduale smantellamento degli ostacoli al commercio, pur interrotto tra le due guerre, si può imputare complessivamente circa il 40 per cento della crescita degli scambi bilaterali dell’Italia con i paesi partner considerati nell’analisi”. Al contrario, il protezionismo degli anni fra le due guerre è stato devastante per la nostra economia: “In sua assenza il volume del commercio italiano sarebbe potuto quasi raddoppiare nel periodo, si è invece dimezzato”.
Poco male, dirà chi giudica la protezione più importante della crescita. Ma allora sappia che “la contrazione degli scambi a seguito di politiche protezionistiche, oltre a ridurre
le esportazioni, priva l’economia di importanti benefici derivanti ad esempio dalla diminuzione dei prezzi e dagli aumenti della produttività promossi dalla concorrenza
estera. Gli effetti negativi che ne risultano possono essere acuti nei paesi, come il
nostro, caratterizzati anche da una limitata dotazione di risorse naturali”. Giusto per ricordarci chi siamo.
Possiamo fare anche un altro passo in avanti. Bankitalia ha svolto un’indagine controfattuale per provare a quantificare i benefici in termini di Pil fra un regime di libero scambio e uno di autarchia per il nostro paese. Il grafico sotto illustra i risultati.
I risultati non hanno bisogno di molti commenti. Nella globalizzazione di fine XIX secolo i benefici dell’apertura sono stati pari in media a quattro punti percentuali di prodotto. Nella globalizzazione del secondo dopoguerra addirittura del doppio con otto punti (puntino nero). Negli anni Trenta del XX secolo, trionfo dell’autarchia, eravamo a due. Non c’è granché altro da aggiungere. Solo da ricordare.
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