categoria: Draghi e gnomi
Monetizzazione ed helicopter money? Pensiamoci bene
Post di Fabrizio Ferrari, laureato magistrale in Economics presso l’Università Cattolica di Milano –
Tra le proposte avanzate da economisti, giornalisti, politici e commentatori economici per gestire le finanze pubbliche ed orientare la ripresa economica post-lockdown, continuano a fare capolino la monetizzazione del deficit pubblico e l’helicopter money.
Partiamo da due premesse. La prima: entrambe le misure possono al più avere un impatto sulla domanda aggregata; affinché ciò si traduca in uno stimolo della produzione è necessario che sia presente della capacità produttiva inutilizzata—e rapidamente mobilizzabile—nel sistema economico. La seconda: sul piano giuridico, rebus sic stantibus, la monetizzazione del deficit è esplicitamente proibita dal Trattato sul Funzionamento dell’UE (art. 121.1) e dal Protocollo sullo Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della BCE (art. 21.1)—analoghe restrizioni sono previste in tutti gli impianti giuridici del mondo occidentale e progredito (USA, UK, Giappone, ecc.).
Ciò detto, i problemi tecnici delle due misure in oggetto—monetizzazione del deficit pubblico e helicopter money—sono principalmente due. Il primo è rappresentato dal perseguimento—surrettizio e sottratto allo scrutinio democratico—di finalità fiscali e redistributive con strumenti monetari; in altre parole, si tratta di delegare delle scelte politiche (quante risorse redistribuire e come redistribuirle) ad un’entità tecnica (il banchiere centrale). Il secondo è costituito da due rischi per la banca centrale: da un lato, la perdita di indipendenza; dall’altro lato, la perdita del pieno controllo sull’offerta di moneta.
Politica fiscale e politica monetaria
Monetizzazione ed helicopter money sono, semplicemente, provvedimenti di politica fiscale mascherati da assi nella manica della politica monetaria—assi che, pur essendo così evidentemente migliorativi del benessere di tutti, nessuno vuole estrarre… per quale motivo?—come si evince ragionando schematicamente sugli aspetti elementari del loro funzionamento tecnico [1].
La monetizzazione del deficit prevede, in estrema sintesi, che il Governo finanzi la propria spesa in eccesso (il deficit) ricorrendo all’emissione aggiuntiva di moneta—creandola dal nulla—anziché indebitandosi nei confronti del settore privato. Tuttavia, la scelta di dove spendere per la prima volta la nuova moneta comporta effetti sia redistributivi sia riallocativi—dal momento che attribuisce ad alcuni agenti economici un potere di acquisto (monetario) superiore al valore aggiunto (reale) prodotto.
In altre parole: da un lato, la monetizzazione, essendo redistributiva, non offre nessun pasto gratis (trasferisce risorse da alcuni agenti ad altri); dall’altro lato, generando un eccesso di domanda per alcuni beni—quei beni che per primi verrebbero domandati ed acquistati dal Governo immettendo nel sistema economico la nuova moneta—altera i prezzi relativi spontaneamente emersi sul mercato. Questa alterazione dei prezzi relativi modifica gli incentivi degli agenti economici (consumo, risparmio e produzione), conducendo ad un’allocazione delle risorse diversa da quella di mercato—ad esempio, dirottando il risparmio verso investimenti più rischiosi [2].
L’helicopter money, invece, prevede un trasferimento monetario diretto ai cittadini; tuttavia, il ragionamento di fondo è del tutto analogo a quello esposto per la monetizzazione, con l’unica differenza che si avrebbero due casi possibili.
1. Se la somma accreditata fosse proporzionale alla ricchezza di ogni cittadino—per semplificare, equivalente all’aggiunta di uno zero al saldo del conto corrente—allora (schematizzando) non si avrebbero particolari effetti redistributivi, ma semplicemente un adeguamento (inflativo) dei prezzi.
2. Se, invece, la somma venisse accreditata solo ad alcuni cittadini e non ad altri, si ricadrebbe nello scenario già esposto per la monetizzazione: alcuni agenti economici si vedrebbero attribuito un potere di acquisto superiore al valore aggiunto prodotto, con effetti redistributivi (trasferimento di risorse a loro vantaggio) e riallocativi (i beneficiari di helicopter money avrebbero più moneta con cui influenzare i prezzi di mercato).
In entrambi i casi—monetizzazione ed helicopter money—la disamina porta ad una prima conclusione: si uscirebbe dal seminato della politica monetaria intesa in senso stretto—conservazione del potere di acquisto della moneta e preservazione del funzionamento del sistema dei pagamenti—per invadere, invece, il campo della politica fiscale—nella sua funzione allocativa e redistributiva.
Quindi, il problema che si pone è di natura filosofico-politica: è giusto che un organo tecnico (la banca centrale) eserciti una funzione politica (redistribuzione e riallocazione delle risorse) che in tutti gli ordinamenti occidentali è demandata al parlamento ed allo scrutinio dei cittadini?
Indipendenza della Banca Centrale e controllo sull’offerta di moneta
Vi è poi la questione—da molti derubricata a cavillo tecnico—circa il funzionamento del bilancio di una banca centrale [3] nella conduzione della politica monetaria. Difatti, alcuni argomentano che una banca centrale non avrebbe “alcun vero interesse economico-finanziario nel mantenere un credito [saldo positivo, ndr] nel proprio stato patrimoniale”. Tuttavia, questa affermazione—secondo cui le banche centrali potrebbero agire senza problemi anche con un Patrimonio Netto negativo—è fuorviante per (almeno) due motivi.
In primo luogo, la capacità di una banca centrale di condurre efficacemente la politica monetaria dipende proprio dalla qualità dei titoli che acquista—o accetta in garanzia per i prestiti—al momento dell’emissione di nuova moneta. Acquistando dei titoli il cui valore di mercato dovesse ridursi nel tempo, la banca centrale avrebbe successivamente difficoltà a ritirare—tramite la vendita dei medesimi titoli—la quantità di moneta precedentemente emessa.
La qualità dei titoli acquistati attraverso le operazioni di politica monetaria è importante anche se si sceglie di concepire la banca centrale unicamente come una propaggine del potere pubblico—cioè, con un bilancio consolidato con quello del Governo. In tal caso, una riduzione dell’attivo patrimoniale della banca centrale avrebbe come conseguenza delle minusvalenze che diminuirebbero il reddito di esercizio da questa trasferito al Governo—riducendo così le entrate dello Governo stesso ed obbligandolo a compensare con maggiori imposte o minore spesa pubblica.
In secondo luogo, bisogna comunque ricordare che—nel mondo occidentale e progredito—la banca centrale, pur essendo una propaggine del potere pubblico, è (o dovrebbe essere) indipendente dal Governo. Pertanto, la banca centrale necessita di una sua autonomia patrimoniale.
Infatti, proviamo a chiederci: quanto sarebbe davvero indipendente una banca centrale economicamente fallita (con più debiti che asset) che abbisognasse di una “paghetta”—per pagare i suoi dipendenti, gli affitti, le bollette, ecc.—da parte di quell’istituzione (il Governo) da cui dovrebbe essere emancipata? Quanto è indipendente lo studente fuori-sede incapiente e sostenuto economicamente dai genitori per pagare l’affitto, la spesa, le rette universitarie, ecc.?
A questo tipo di considerazione si potrebbe ribattere che la banca centrale, forte del suo monopolio sull’emissione di moneta, potrebbe emetterne ugualmente e pagare così le proprie spese di funzionamento. Tuttavia, una volta venuto meno il bilanciamento tra il valore della moneta (passivo patrimoniale) e quello dei titoli acquistati (attivo patrimoniale), il valore della moneta deriverebbe unicamente dal fatto di essere l’unico mezzo (legal tender) per pagare le imposte al Governo.
Quindi, una volta abbandonata la gestione oculata e bilanciata del proprio stato patrimoniale, la banca centrale si troverebbe nella situazione di emettere una moneta il cui valore dipenderebbe unicamente dalle scelte di politica fiscale del Governo—quanto tassare e quanto spendere negli esercizi futuri—sfumando, di nuovo, il confine tra politica fiscale e monetaria.
In questo scenario, la conservazione del valore della moneta richiederebbe che, in seguito ad un’espansione monetaria, il Governo fosse in grado di prendere un impegno credibile a ritirarla successivamente—impegnandosi a tassare più di quanto spende.
Conclusioni
La monetizzazione del deficit pubblico e l’helicopter money sono due strumenti—e, come tali, vanno giudicati nella loro idoneità al conseguimento dei fini che ci si prefigge. Ciò che emerge da un’analisi breve e schematica è che entrambi—dati i loro effetti principalmente redistributivi e riallocativi—mal si prestano alla soluzione di problemi economici originatisi sul lato dell’offerta e della produzione.
Infine, entrambi presentano dei costi evidenti—perdita di preminenza della politica (sulle decisioni allocative e redistributive) e compromissione dell’indipendenza e dell’efficienza della banca centrale—che li rendono ben lontani dall’essere strumenti Pareto-efficienti o, più prosaicamente, pasti gratis.
Twitter @Fabriziofer1994
NOTE:
[1] Per approfondire, si rimanda a Kevin Dowd, Against Helicopter Money, Cato Journal, Winter 2018. 
[2] Ad esempio, Andrea Zaghini, How ECB purchases of corporate bonds helped reduce firms’ borrowing costs, Voxeu.org, 30 gennaio 2020, mostra come l’acquisto di titoli condotto dalla BCE all’interno del CSPP abbia incoraggiato gli investitori a investire in obbligazioni più rischiose. 
[3] Per approfondire si rimanda a Alex Cukierman, Central Bank Finances and Independence – How Much Capital Should a CB Have?, 2010.